Andrea Masi ha chiuso senza tanta enfasi una carriera eccezionale. E rimarrà a studiare rugby in Inghilterra, Brexit permettendo.
(da Allrugby numero 106)
Quello non fu un placcaggio: per fermare il colossale pilone figiano già in volo per la meta della vittoria (Italia v Fiji del 2010, ndr) non bastavano coraggio, tecnica, tempismo, forza e velocità. Per bloccare Ma’afu, che guidava quell’imparabile sovrannumero quattro-contro-uno a ridosso dei pali italiani, serviva un kamikaze disposto a rischiare tutto per salvare l’onore della squadra. Andrea Masi inquadrò nel mirino l’avversario e si pilotò immolandosi nella missione più dura della carriera: lui e Ma’Afu esplosero nello stesso istante, dalle mani del gigante isolano la palla rotolò in avanti. Mischia per gli Azzurri, mentre tutti gli appassionati allo stadio di Modena e gli spettatori in tv ricominciavano a respirare perché avevano visto che, sia pure da terra, il numero 14 dell’Italia dava cenni di essersi ripreso e stava bene.
La partita era al sicuro, l’onore dell’Italia anche (il match finirà 26-14). Molto meno al sicuro era però l’estremo aquilano, poi uscito dal campo bardato con una fascia bianca attorno alla testa a cui mancava soltanto il sole rosso sulla fronte.
“Eh sì, quel pilone non passò, ma io per un bel po’ vidi parecchie stelle. E anche gli uccellini e tutto il resto, insomma il cassico repertorio di chi si scontra a tutta velocità con una montagna” ricorda Masi, 35 anni e 95 caps, a pochi giorni dal suo addio al rugby giocato per l’impossibilità, nonostante operazioni, terapie e litri di sudore in palestra, di recuperare dalla rottura del tendine di Achille avvenuta lo scorso settembre durante Francia-Italia alla Coppa del Mondo Mondiali in Inghilterra.
È il passato prossimo, ovvero l’ultimo capitolo della lunga saga del guerriero abruzzese di cui possiamo tuttavia anticipare, prima di ripercorrerne le tappe, il sequel.
“Sì, non temendo particolari conseguenze per la Brexit, vorrei restare a Londra con mia moglie (l’ingegnere di robotica, Consuelo) e la nostra bimba Adele (otto mesi). E vorrei restare, soprattutto, nel mondo del rugby. Grazie alle stagioni trascorse negli Wasps ho maturato molti contatti e ho intenzione di imparare ad allenare seguendo corsi: con umiltà, partendo dai primi passi”.
Di umiltà un tipo come Masi ne ha sempre dimostrata tanta. Per non parlare dell’immenso talento, della precocità agonistica e anche della versatilità, visti i tanti ruoli diversi in cui è stato impiegato. Debutto da sedicenne con L’Aquila (dopo aver iniziato a giocare solo a 14 anni!) in una serie A allora davvero espressione del vertice del movimento e prima maglia azzurra a 18 sempre all’Aquila con il ct Massimo Mascioletti che lo buttò dentro in un test di preparazione ai Mondiali 1999, contro la Spagna.
“Già, non finirò mai di ringraziarlo per la fiducia che mi dimostrò facendomi esordire in Nazionale e per di più al Fattori davanti ai nostri concittadini. Un’emozione indimenticabile”.
Poi però, con il ct Johnstone, ci furono due stagioni di black out.
“Per quanto possa sembrare amaro quel periodo è stato decisivo per la riuscita del mio futuro: il tecnico neozelandese mi chiamò e mi disse con molta lealtà che non mi avrebbe fatto giocare perché non sapevo difendere. Una considerazione di cui lo ringrazio ancora. Mandai giù e mi misi a studiare tecnica individuale e collettiva. E gli avversari e i loro movimenti. Non ho mai smesso di farlo. Mai, né in Nazionale né nei club, attraverso video, relazioni, confronti con i tecnici. Difendere il meglio possibile è diventato il pilastro della mia autoeducazione. Sennò come lo fermavo il pilone figiano in quel quattro contro uno a Modena?”.
Giusto, la difesa: ma per celebrare Andrea Masi viene più facile partire dalla meta della vittoria contro la Francia al Flaminio nel 2011, un’impresa che non serve raccontare tanto è impressa nel cuore.
“Sì, una magnifica partita che mi ha regalato anche quella meta da condividere con tutti i compagni e gli appassionati che dai tempi di Grenoble (1997!) attendevano il successo dell’Italia. Ma al tempo stesso non dimentico placcaggi e “chiusure” che hanno permesso di fermare gli avversari. Sono soddisfazioni meno evidenti per chi è fuori, ma importantissime per me”.
Parliamo di un’altra importante azione difensiva in cui si è esibito di recente.
“Ma se non gioco da novembre!”
Epperò non ha esitato a metterci la faccia per difendere la Nazionale durante quest’ultimo mestissimo Sei Nazioni. E per più ha difeso i giocatori al centro degli attacchi lanciati da fior di veterani suoi ex compagni di squadra. Sui social ha scritto, letteralmente: “Sparatemi se quando mi sarò ritirato criticherò gli Azzurri mancando loro di rispetto”.
“Ecco, non ho proprio sopportato quelle critiche. Si può discutere con franca correttezza di tecnica e scelte di gioco o di altri elementi, ma sempre con onestà intellettuale. Non si può invece, a mio parere, mettere in dubbio la passione, l’impegno e la buona fede di chi gioca. Poi può capitare, ed è capitato, che i ragazzi in campo finiscano le energie e vadano sotto di brutto, ma io sono certo del loro impegno assoluto: come passione non siamo secondi a nessuno, credetemi. E lo sanno, in cuor loro, anche gli accusatori che però puntano a mettersi a luce e non ad aiutare la squadra a crescere”.
Quanto è difficile guardarsi allo specchio e dire addio alla Nazionale e al club, per di più sapendo di dover mettere in bacheca anche il ruolo di ultimo superstite in azzurro dell’era pre Sei Nazioni?
“Tanto, tantissimo, la notte ancora mi giro nel letto. A maggior ragione dovendo rinunciare al nuovo corso di O’Shea con il quale mi sono sentito anche di recente”.
C’è molta fiducia in questo nuovo staff.
“Com’è giusto che sia. Sono tutti professionisti di altissimo livello che ho avuto modo di conoscere e di vedere all’opera in questi anni. E poi c’è finalmente il progetto di mettere a sistema tutto il movimento, dalla formazione alle franchigie, passando per accademie, club ed Eccellenza. Credo che sia la strada giusta anche perché O’Shea non è solo un ottimo allenatore, ma anche un formidabile progettista-pianificatore”.
In sedici stagioni internazionali e 95 caps, “Masò” (il soprannome coniato nel 2000) ne ha conosciuti di grandi allenatori.
“Sì, mi ritengo un privilegiato e mi scuso subito se non li citerò tutti anche se tutti hanno contribuito alla mia crescita: Mascioletti e Mike Brewer all’Aquila e poi ancora lo stesso Massimo e Kirwan in nazionale. Hanno sempre dimostrato grande fiducia in me. Berbizier per l’esperienza nonché per avermi chiamato anche al Racing di Parigi, Mallett per la concretezza e Brunel per il gioco che ha dato all’Italia. Tutti o quasi, fra l’altro, hanno avuto la pazienza di attendere il mio recupero dopo i tanti infortuni di cui periodicamente ho sofferto”.
Masi sempre capace di tornare a livello internazionale anche dopo i peggiori ko fisici. Tuttavia molti di quei ct si sono sbizzarriti nello schierarla in campo in posizioni diverse.
“Già: apertura, centro, ala ed estremo. Quale preferivo? Ma a me bastava giocare. Ok, ok, sì, estremo mi piace molto. E sui miei limiti, ad esempio nel gioco al piede, sono sempre stato trasparente. E pazienza se questo mio essere “utility bck” a volte mi ha mi impedito di esprimermi nella maniera migliore”.
Grandi allenatori e anche grandi personaggi alla guida dei club in cui ha giocato.
“Beh, è andata molto bene anche in questo ambito: a Biarritz, in uno scenario favoloso, regnava, sia pure da dietro le quinte, Serge Blanco. A Parigi, e non serve aggiungere aggettivi, ho avuto la fortuna di giocare per Jacky Lorenzetti, un magnate dall’enorme lungimiranza in ogni settore, e sono tanti, in cui opera. E a Londra, una delle capitali del mondo, non scherza l’imprenditore Derek Richardson che ha orchestrato il passaggio degli Wasps da Londra alla Ricoh Arena di Coventry trasformando in un grande successo un’operazione da molti guardata con forti timori”.
Difficile, davanti a nomi di questo calibro, avere nostalgia dell’Italia e certo la situazione di Viadana e Aironi ha aiutato a non avvertirla.
“Non la vedo così: sono felice della mia scelta di andare a giocare all’estero, un’esperienza che consiglio, ma non bisogna fare paragoni fuori scala. Io poi trovo sempre gli aspetti migliori di ogni ambiente. E guardate che all’estero la considerazione nei confronti del movimento rugbistico italiano continua a crescere”.
Però i risultati della Nazionale e nelle coppe europee sono quelli che sono.
“Vero, ma tutto va contestualizzato. Se poi giochi e vivi in Francia o in Inghilterra ti accorgi del valore e del peso delle loro lunghe tradizioni. Serve tempo, tanto tempo. Adesso, fra l’altro, sono tantissimi i bambini e le bambine che giocano a rugby e sono numerosi anche i giovani talenti che nelle ultime stagioni hanno debuttato in Nazionale”.
Sempre al fianco di un aquilano da esportazione come Parisse.
“Sergio è davvero un grande capitano, oltre che un giocatore fenomenale. E mi piace anche ricordare il carisma di Massimo Giovanelli e le doti di leader di Marco Bortolami”.
Allora, presente e futuro a Londra ma con puntate nel passato in famiglia all’Aquila dove trascorrete l’estate.
“Certo, non solo per rivedere parenti e amici, ma anche per valutare la ricostruzione: dopo una lunga e insopportabile stasi, ora fra mille difficoltà, si notano buoni progressi. Servirà ancora molto tempo, ma gli aquilani non mollano mai”.
A costo di vedere le stelle vorticare sulla loro testa.
Andrea Masi è nato a L’Aquila il 30 marzo del 1981. Nell’allora Serie A (oggi Eccellenza) ha esordito a 16 anni, nel novembre del 1997. In Nazionale ha disputato 95 partite e ha realizzato 13 mete. Ha giocato ne L’Aquila, nel Viadana, nel Biarritz, nel Racing, negli Aironi e negli Wasps.
Nella foto di Roberto Bregani/Fotosportit, la meta di Andrea Masi a Murrayfield, nel match del Sei Nazioni 2011 contro la Scozia.