Agustin Pichot vuole portare a cinque anni il periodo minimo per l’equiparazione dei giocatori. Di veri “equiparati” nella storia del rugby azzurro ce ne sono stati una quindicina. L’ultimo è stato Braam Steyn che ha esordito in Nazionale a febbraio contro l’Inghilterra.
Il primo “equiparato” del rugby azzurro era stato invece il neozelandese Matt Phillips nel 2002.
Di “stranieri”, prima di lui, in Nazionale ce n’erano stati altri (Tito Lupini, Julian Gardner, Matthew Pini, Wim Visser per fare i primi nomi che vengono in mente) ma tutti, in un modo o nell’altro, erano approdati maglia azzurra in virtù di un passaporto, una discendenza, una nonna, una moglie, un genitore che li collegava all’Italia. Quanto agli argentini, molti di loro avevano, o hanno, il passaporto italiano e quindi non sono “equiparati” bensì nostri connazionali a tutti gli effetti.
Phillips fu il primo a usufruire della regola che consente tuttora a chi abbia trascorso 36 mesi di permanenza continuativa in un paese di vestirne la maglia della Nazionale, indipendentemente da cittadinanza, nascita, matrimonio e discendenza.
Ora Agustin Pichot, divenuto vicepresidente di World Rugby, ha detto che è ora di cambiare. “Qualcuno se la prenderà a morte per questo – ha dichiarato l’ex mediano di mischia dei Pumas -, ma la regola è sbagliata e va cambiata. Per ispirare i giovani dobbiamo preservare l’identità delle squadre nazionali e la loro cultura. Ci sono giocatori che si sono trasferiti in un altro paese quando avevano dieci o dodici anni, a quel punto capisco che possano giocare per la loro nuova patria. Ma prendere un ragazzino da un’accademia, come sta succedendo a Tonga, per mettergli la maglia dell’Irlanda, dico per fare un esempio, quello non mi piace. Io vorrei che quel ragazzo potesse giocare per Tonga, essere pagato là e vivere bene. Cinque anni di residenza è già un periodo che potrei accettare. E’ una proposta che dobbiamo mettere in calendario per i prossimi mesi”.
Agli ultimi Mondiali l’Argentina era l’unica Nazionale i cui 31 giocatori erano nati tutti in patria.
In Italia, dopo Phillips arrivarono Scott Palmer e poi Wakarua, Griffen, De Marigny, Robertson, De Jager, Vosawai ed Erasmus.
A conti fatti, i veri gli equiparati del rugby italiano, secondo la regola di cui sopra, non sono stati più di una quindicina (gli ultimi, in ordine di tempo: Geldenhuys, Van Zyl, Botes, Haimona, Vunisa, Van Schalkwyk e, appunto, Steyn). Josh Sole, per esempio, aveva la mamma di Napoli, così come hanno origini italiane Mc Lean, Persico e persino Gower (ricordate?). Nemmeno Spragg (chi era costui…?) era un “equiparato”: giocò in Nazionale perché aveva una nonna italiana.
Quella degli “equiparati” è diventata la frontiera del nuovo rugby: Vatakatawa, Spedding, Atonio, Nakaitici, Kockott in Francia, Rokodoguni in Inghilterra, Visser e WP Nell in Scozia, CJ Stander, Payne e Strauss in Irlanda. Per tralasciare i vari Tuilagi, Faletau e i Vunipola, tutti arrivati nel Regno Unito da ragazzini. Maro Itoje è nato vicino Londra da genitori nigeriani.
Oggi una federazione lungimirante li coltiva per tre anni nei club e nelle serie minori e poi li lancia in Nazionale quando è il momento e ce n’è bisogno. E’ quello che Pichot vuole frenare.
Ma quanti potenziali “equiparabili” l’Italia ha sprecato negli ultimi anni? Quante perle non ha saputo riconoscere, nascoste nel fango dei nostri campionati o nell’indifferenza di qualche coach?
Brendan Williams, il principe dei rimpianti, non è mai rientrato in realtà nella categoria dei potenziali Azzurri: la partecipazione, nel 1998, ai Giochi del Commonwealth con la maglia dell’Australia Seven, gli ha precluso di fatto ogni chance di giocare per l’Italia. Lo stesso vale per Marius Goosen che, nel 1997, fece parte degli Emerging Springboks, squadra registrata dalla Saru come equivalente alla Nazionale.
Sarebbe stato diverso invece il caso di David Hill, neozelandese, ingaggiato nel 1999 dal Calvisano, quando il giocatore (mamma della provincia di Trento) aveva appena compiuto 21 anni. Mediano di apertura di Waikato, Hill avrebbe potuto avere il passaporto italiano e anche se all’epoca la maglia azzurra numero dieci era ancora saldamente di Diego Dominguez, il giocatore neozelandese avrebbe dovuto essere proiettato nel giro della Nazionale, alla quale avrebbe certamente fatto comodo per una decina d’anni o più. Hill invece restò a Calvisano una sola stagione, poi tornò in Nuova Zelanda, dove dal 2001 al 2006 giocò con i Chiefs, indossando anche una volta la maglia degli All Blacks (contro l’Irlanda, a Auckland, nel 2006). Avevamo l’apertura del futuro e non ce ne siamo accorti, o non l’abbiamo voluta vedere.
Ancora prima, a Viadana (1998/1999), c’era stato Sonny Parker, lui pure neozelandese. Nel 1999 si trasferì al Pontyrpridd e nel 2002, dopo le tre stagioni obbligatorie, fu convocato per il Galles con la cui maglia disputò da centro la bellezza di trentuno partite.
Dopo Hill, a Calvisano, la maglia numero 10 fu indossata per parecchie stagioni da Ged Fraser il quale però, nel 2005, andò a Bayonne (in Francia), prima del compimento dei 36 mesi necessari all’equiparazione. Tornò in Italia nel 2007, ma a quale punto il conto alla rovescia dovette ricominciare da zero. Anche per lui l’equiparazione svanì tra miopia, calcoli sbagliati e mancanza di programmazione.
Negli stessi anni, sempre a Calvisano, fecero bella figura due seconde linee che avrebbero certamente fatto comodo all’Italia: Justin Purll e Ben Hand, entrambi australiani. Il primo dopo otto stagioni a Calvisano (e una al Prato) è finito al Bordeaux, in Top 14, e poi al Perpignan. Il secondo dopo un anno in Italia è stato quattro stagioni ai Brumbies e quattro al Grenoble…Mah.
In tempi recenti, Nick Williams (numero otto) è stato un’iradiddio agli Aironi (2010-2012), prima di trasferirsi all’Ulster e James Marshall ha giocato da centro una trentina di partite negli Hurricanes, e altrettante nel Taranaki, dopo aver disputato, sempre agli Aironi, il Pro12 del 2010/2011, 18 partite e 47 punti. All’epoca dei loro rispettivi soggiorni in Italia, Williams aveva 27 anni, Marshall 22. Il primo sarebbe stato equiparabile a trent’anni (Van Schalkwyk ha debuttato in azzurro a 31…), il secondo a 25 e avrebbe avuto davanti cinque buone potenziali stagioni in Nazionale.
A margine va ricordato anche che nell’estate del 2003, su segnalazione di Frank Bunce, Nick Evans aveva firmato un precontratto con la Leonessa. Rinunciò all’opzione quando qualche settimana più tardi gli fu offerto un contratto dagli Highlanders, nell’allora Super12. Successivamente Evans ha giocato anche con i Blues, con gli All Blacks (16 cap) e quasi 200 partite con gli Harlequins. Pensate un po’ cosa avremmo potuto fare con uno come lui in Italia…
In sintesi: nessuno auspica un’Italia imbottita di nomi stranieri, ma visto che gli equiparati sono ormai una risorsa per tutte le squadre del mondo (con eccezione tra le grandi soltanto di Sudafrica e Argentina), la strada ideale sarebbe quella di un progetto di lungo termine. Brad Barritt, nato in Sudafrica, ha giocato per i Saxons (la Nazionale A inglese) per un paio di stagioni prima di fare il suo debutto con l’Inghilterra nel 2012 e Dylan Hartley è nato in Nuova Zelanda, ma con la formazione della rosa ha fatto la trafila delle nazionali giovanili prima di approdare ai seniores.
Sul tema sarà interessante vedere come si muoverà il nuovo staff dell’Italia. Nell’autunno del 2017, Jaden Hayward (a trent’anni) sarà equiparabile dopo aver completato tre anni di residenza a Treviso, mentre per Johan Meyer e Gideon Koelegenberg, terza e seconda linea delle Zebre, bisognerà attendere altre due stagioni, ma il primo è del febbraio 1993, mentre il secondo è addirittura del novembre 1994. A venticinque anni, potrebbero essere pronti entrambi per i Mondiali del 2019.
nella foto di Daniele Resini/Fotosportit, Quintin Geldenhuys