vai al contenuto principale

Stefano Franceschi è un abile provocatore e un comunicatore altrettanto smaliziato. Il suo articolo “Gli Intoccabili”, pubblicato sul blog “il Nero e il rugby” lo scorso 13 dicembre, dopo avervi portato a spasso con l’autoreferenzialità della classe arbitrale italiana e altre quisquilie, di più o meno significativo rilievo, di soppiatto, ma neanche tanto, parlando di arbitri, introduce il tema che più gli sta a cuore e che da mesi, anzi da anni, tiene banco nel rugby italiano: la piramide si regge sulla base o sul suo vertice, contro le leggi della geometria euclidea?

Due le frasi che rivelano il contenuto vero delle considerazioni del Nero, la prima prende spunto dal fatto che Andrea Piardi e Gianluca Gnecchi, i due migliori arbitri del panorama nazionale, su 35 partite, nelle prima sette giornate del campionato di Serie A Élite, ne hanno arbitrate in tutto quattro, due ciascuno.

Gianluca Gnecchi, in un match di URC

“Ma allora quando noi generiamo dei bravi arbitri per chi lo facciamo? Per gli altri – Franceschi si risponde da solo -. Perché è così che va a finire, i nostri migliori fischietti mica stanno qui ad aiutarci ad alzare il nostro livello in campo ma vanno più su, bravi se lo meritano e siamo anche orgogliosi di loro, ma poi non lamentiamoci…etc”.

E più sotto: “Non è un panorama consolante e qualcuno lassù fra il plenipotenziario Marius Mitrea ed il Presidente “eletto” Alan Falzone, entrambi cresciuti in epoca “Innocenti”, del quale hanno evidentemente rispettato le direttive che la Serie A Elite sia solo una palestrina per altre ambizioni, dovranno darci spiegazione”.

Ora, la spiegazione tocca quello che da anni è un nervo scoperto del rugby italiano, il rapporto tra campionato e nazionale.

Perché nemmeno i migliori giocatori restano ad alzare il livello del campionato: puntano legittimamente alle franchigie se non addirittura all’estero, passando magari attraverso le formazioni espoirs dei club francesi. Che fare?

La premiazione della finale della scorsa stagione (foto di Stefano Delfrate)

Venticinque anni fa, Gianluigi Vaccari, presidente della Lega Rugby e vicepresidente del Calvisano, diceva: “Voglio fare una premessa che sgombri subito il campo da ogni equivoco: ho la nazionale nel cuore e ne sono il primo tifoso. Ma è dai club e dal nostro impegno quotidiano che viene la sostanza su cui si può reggere tutto il movimento. Dondi, evidentemente, la pensa in modo diverso. Per lui sarà la nazionale a fare da motore, anche economico, per tutto il rugby italiano. È un’ipotesi che io mi auguro corretta, ma sulla quale non sono affatto ottimista”.

Un quarto di secolo dopo, la nazionale resta la locomotiva di un convoglio di cui alcuni vagoni si sono persi per strada. Le franchigie drenano risorse e attirano i giocatori, per i quali, del resto come per gli arbitri, il livello internazionale è imprescindibile per crescere. Il campionato resta la “palestrina”, si discute di come valorizzarlo, farlo crescere, dargli appeal. Ma il problema resta economico: come convincere a investire in una competizione, in uno sport che in Italia, fuori da Treviso, o se preferite, dal Veneto, da valore solo al Sei Nazioni, l’unico marchio che in 25 anni è un po’ cresciuto nella considerazione del pubblico e (neanche tanto) dei media?

Le Zebre, qui in URC contro gli Scarlets, si trasferiranno a Padova? (©INPHO/Mike Jones)

C’è una soluzione? Qualcuno parla di imminenti novità: le Zebre a Padova che manterrebbe, tuttavia, una squadra (continuerebbe ad essere il Petrarca?) anche in Élite, dove tornerebbe a competere una formazione Benetton con gli atleti della sua rosa allargata. Regole chiare per il passaggio dei giocatori dal campionato alle franchie e viceversa. Elite e URC più vicine, per invogliare gli sponsor, il pubblico e accorciare la catena di formazione. Si farà? Mah.

Nella foto del titolo, Andrea Piardi arbitro della semifinale tra Rovigo e Petrarca, la scorsa stagione 

Torna su