“Pronto, Paolo, ciao sono Luca, hai visto che la Lazio ha vinto lo scudetto?”
Ciao, Luca, no, no, la Lazio ha vinto la Serie A.
“Appunto, è campione d’Italia!”.
No, campione d’Italia è il Petrarca Padova, la Lazio ha vinto la promozione nella Serie A Élite. Solo nella prossima stagione potrà lottare per lo scudetto.
“Ah sì, bene, allora potremo vedere a Roma i migliori giocatori italiani?”.
Sì, cioè, no. Li potrai vedere nel Sei Nazioni all’Olimpico, ma non nel campionato Serie A Élite.
“Scusa, non capisco”.
I migliori italiani, un’ottantina, gli unici veramente professionisti, anche se devi dimenticare i salari non dico del calcio, ma anche quelli di basket e volley, giocano nelle due franchigie a Parma e a Treviso, squadre che partecipano solo a coppe con squadre europee e sudafricane.
La Lazio festeggia la promozione dopo il successo nello spareggio con il Cus Torino a Prato (Foto Lazio Rugby)
“Ma allora che serie è la Serie A?”
Luca abbi pazienza: dall’alto ecco le due franchigie, poi la Serie A Élite…
“Quella che mette in palio lo scudetto”.
Sì, fin qui ci siamo. L’anno scorso era a 9 squadre ma nella prossima stagione tornerà a 10 squadre compresa la “tua” Lazio. Poi sotto ci sarà la serie A “nazionale” a 10 dieci squadre.
“Ma questa A è una serie B, se non C…”
Aspetta, aspetta: sotto l’A cosiddetta “nazionale” ci sarà la Serie A cosiddetta “territoriale”, ovvero 3 gironi di 10 squadre. Solo sotto questo livello arriva la serie B.
“Insomma, ci sono 50 squadre con la targa Serie A prima di scendere nella B che poi sarebbe la serie D?”.
Così è. Poi ecco la serie C “nazionale” che offre la promozione in B e infine la serie C “territoriale” per le squadre senza ambizione di promozione.
“Quest’ultima serie C sarebbe la F… Ma scusa, Paolo, chi non è rugbista come fa a orientarsi?”.
Appunto, come te, non si orienta.
“E poi perché mascherare tante squadre di dilettanti con la targa della serie A? Ma un rugbista si sente sminuito se gli dici che gioca in serie B? E perché dopo la Serie A Élite non chiamare allora almeno A2 e A3 le serie sottostanti?”.
Boh, todos caballeros?
“Forse per attirare più sponsor?”.
Sponsor? No, caro Luca, lo sponsor non ce l’ha nemmeno il campionato di Serie A Élite la cui finale in diretta su RaiDue ha attirato ben pochi telespettatori (183mila, share 1,7%) e pochissime righe sulla stampa nazionale.
“Ma era la finale che assegnava la scudetto: com’è possibile?”.
Eh, quante domande, così è e basta, anzi, evviva evviva, posso riscrivere il curriculum. Non lo sapevo, ma in gioventù ho giocato in Serie A anche se a cavallo degli anni 70 e 80 pensavo di fare (raramente) meta in Serie C, la terza e ultima serie che veniva appunto dopo la A e la B. Devo avvisare anche i compagni, sai che soddisfazione: siamo stati tutti in Serie A.
La superfetazione della serie A, ideata senza nemmeno bisogno di condoni, è arrivata a sorpresa quando i campionati 2023/2024 erano ancora in corso.
“Ancora in corso?”.
IL MODELLO NBA
Già. Ecco allora che la massima divisione, quella che assegna lo scudetto, la Serie A Élite, che risale da 9 a 10 squadre e non scende più a 8, versione ristretta che il presidente Marzio Innocenti aveva evocato nella sua prima conferenza stampa citando persino il modello NBA (basket Usa), un modello diciamo un filino esagerato. Anzi no, nell’Nba giocano 30 squadre, il rugby italiano ne avrà 50 etichettate con la lettera “A”. E poi, visto che si è cambiato di nuovo l’assetto, proprio l’etichetta Élite si doveva conservare? Il rugby uno sport elitario? Non che Eccellenza (termine ripescato dai campionati ovali dei primi anni Sessanta) fosse meglio: nel calcio, il verbo dello sport in Italia, l’Eccellenza è la quinta serie. Top 10? Così così. Inutilizzabile in versione Top 8 che si avvicinerebbe molto a Topolino.
Boston Celtics vs Dallas Mavericks, Game 5 delle NBA Finals 2024 (Photo by Jesse D. Garrabrant/NBAE via Getty Images)
Ma non si poteva proprio tornare alla cara e chiara Serie A? La massima divisione, quella che assegna lo scudetto, si chiama Serie A, che meraviglia. Che semplicità, che immediatezza.
“Piacerebbe anche a me – disse Innocenti sempre in quella sua prima conferenza stampa – Ma mi hanno detto che non si può”.
Par condicio, ci mancherebbe, per il movimento femminile: dopo la Serie A naturalmente Élite viene la Serie A. Dopodiché stop, non esistono la B o la C. Tutte in serie A.
Dunque, con alto sprezzo del ridicolo, si è reso ancora più incomprensibile lo scenario delle gerarchie. Dal punto di vista della comunicazione e dell’immagine, un guazzabuglio inspiegabile al di fuori del nostro orticello che resta confuso per chi magari vuole avvicinarsi forse addirittura per dare un sostegno.
IL PRECEDENTE DEL 1993
Dal punto di vista tecnico vedremo che cosa accadrà, ma viene in mente un articolo del novembre 1993 di Domenico Calcagno sul Giorno (la meritoria rubrica La Bislunga) titolato “Quella smania di giocare in Serie A è l’autentica rovina del rugby d’Italia” a proposito della proposta dei club di passare da 12 a 14 squadre sia in A1 sia in A2 quando invece la Federazione presieduta da Maurizio Mondelli voleva scendere a 10 squadre nei due campionati.
E infatti lo scudetto della stagione seguente se lo giocarono in 10 squadre, poi si tornò a 12. Ovvero (tra A1 e A2) a 24 squadre targate serie A che già 31 anni fa erano un’eresia che faceva piangere i ct disperati per tutte quelle partite inutili (il 1993 è il primo anno dell’era di Georges Coste).
Ebbene, la prossima stagione le squadre targate “A” saranno più del doppio. Facciamo pure la tara per i 31 anni trascorsi, ricordiamo pure che i praticanti e le società sono aumentate, ma insomma, siamo sempre nel recinto di un movimento di 100mila tesserati, dirigenti e tecnici compresi.
IN 1.500 IN SERIE A
Innocenti sognava uno scudetto conteso da 8 squadre, ma poi, all’avvicinarsi della scadenza del suo primo mandato, ha ascoltato le società. E si sa come va a finire quando si chiede di scegliere fra Gesù o Barabba. Risultato? Prima di arrivare a un giocatore di serie B ne vanno enumerati almeno 1.500 targati serie A: che potenza!
Ma poi com’è la storia che i migliori giocatori italiani non giocano in Serie A Élite?
LE FRANCHIGIE
Ecco, a chi si avvicina al rugby, ai media, agli sponsor, va ancora spiegato che i migliori italiani (un’ottantina, un’élite ancora più elitaria della Serie A Élite) giocano nelle due franchigie (Treviso e Parma) impegnate solo nelle coppe euro-sudafricane in cui il livello del gioco è maggiore e quindi più utile per proseguire poi verso la nazionale.
Insomma già la Serie A Élite non è così tanto élite, ma se assegna lo scudetto accettiamo pure nomi altisonanti, ma sotto, per essere chiari su gerarchie e valori tecnici, dovrebbe venire la B e poi la C e magari anche la D se vogliamo essere logici e trasparenti sia fra noi parrocchiani sia fra chi vuole conoscerci.
IL PROFESSIONISMO
Il professionismo compie ormai 30 anni, ma già scricchiola in molti contesti pur continuando a riguardare meno dell’1% del movimento mondiale, figuriamoci in Italia dove la ricchezza del rugby (al di là dei fasti del Sei Nazioni) è davvero racchiusa solo nei valori educativi e ludici del gioco che sono infatti stracitati un tanto al chilo salvo poi essere calpestati in questa confusione di categorie.
Ma a rugby (tolto quello scarso 1%) in Italia e ovunque nel mondo, non si gioca sempre e solo per divertimento? Non è unicamente la passione che ripaga i giocatori? E non sono i giocatori che pagano per giocare versando le quote di iscrizione alle società?
Tommaso Menocello, miglior giocatore del Sei Nazioni 2024, ha rinnovato il contratto con il Benetton fino alla fine della stagione 2025/2026 (foto Benetton Rugby)
ETICHETTE
Chi è bravo, chi ha talento e determinazione deve avere la possibilità di diventare professionista, certo, ma tutti gli altri (il 99%) sono davvero interessati all’etichetta del campionato in cui giocano? Sia chiaro, essere promossi anche dalla C alla B è un’enorme soddisfazione, l’impegno agli allenamenti e in partita deve sempre essere massimo, nello spirito del gioco. Però di professionismo “straccione”, di illusioni, di ragazzi che passano da un club all’altro per 300 euro di rimborsi-spese, di club che si indebitano non per allargare il vivaio ma per “salire di categoria” non ne abbiamo bisogno. Magari si potrebbe leggere “Del rugby – Verso un’ecologia della palla ovale” (Marsilio, 2017) di Andrea Rinaldo, azzurro e premio Nobel per l’acqua, che qualche motivata coordinata la fornisce.
GLI SPONSOR
Infine la questione degli sponsor che qualcuno cita davanti all’italica bramosia per l’etichetta serie A: tolta quella manciata di mecenati dalle grandi risorse, resta da sempre solo e soltanto quel devoto esercito di piccoli e piccolissimi benefattori che dalla C in su puntellano la baracca anche quando sono venuti meno i motivi legati alle agevolazioni fiscali. Che la squadra sia in A o in C a rispondere quando si bussa alla porta sono sempre gli ex compagni di scuola, gli ex giocatori, gli amici che hanno raggiunto una qualche solidità imprenditoriale (dal negozio alla piccola impresa), le realtà produttive locali, qualche generosa fondazione, tutti consapevoli di fare il bene della comunità senza ottenere un ritorno economico legato alla visibilità (ovvero all’invisibilità) del club o del rugby che non appartiene ai lampi, stagionali, della nazionale.
IL PROGETTO
Magari, se si rendesse più limpido lo scenario, se le gerarchie dei campionati e dei club fossero subito comprensibili e adeguate alla realtà, se si rispettasse il significato e il valore delle parole (aspetti fondanti del rugby), si guadagnerebbe credibilità per allestire progetti di crescita in grado di ottenere la fiducia di chi vuole conoscere e sostenere questo sport.
La foto del titolo è di Stefano Delfrate