Una giornata partita male, un cielo grigio che sembrava voler far saltare una promessa ormai fatta da tempo: far vivere per la prima volta a una ventenne tutte quelle sensazioni che solo uno stadio pieno di 70mila persone è in grado di dare.
Ma si sa, le promesse vanno mantenute e pian piano le gocce di pioggia si sono trasformate in lacrime di commozione per un’Italia che mai avremmo pensato di vedere.
Entrare all’Olimpico durante il Sei Nazioni è sempre un qualcosa di magico, è come varcare un confine capace di aprire le porte verso un mondo parallelo fatto di kilt e cornamuse, di birre a non finire e pacche sulle spalle da sconosciuti che, pian piano, sembrano diventare i protagonisti di un unico grande clima di festa fuori dal tempo e dallo spazio.
Nella nostra era, quella dei social e della poca socialità, è raro riappropriarsi di una così grande umanità in così poco tempo: parlare con ragazzi di ogni età, afferrare goffamente al volo un pallone ovale per poi rimandarlo indietro in modo ancor più goffo, ballare sotto un palco alle cinque di pomeriggio e perdere la voce per quindici ragazzi che rincorrono un sogno, del quale, a dirla tutta, prima di sedersi in quegli scomodi seggiolini blu non si sa nulla, sembra ormai un qualcosa di davvero distante, fuori dalla nostra portata. Eppure, è bastato un pomeriggio qualsiasi di marzo a farci ricredere, a farci riappropriare di quella sensibilità che solo immergendosi nella vita, quella vera, fatta di persone che si abbracciano, che piangono e sventolano la propria bandiera abbracciando nel frattempo un avversario, si può riassaporare.
E così, passati i primi minuti a interrogarsi su come si debba passare la palla e sul perché dei fischi dell’arbitro in uno sport che a primo impatto sembra un susseguirsi di falli e cadute, anche il sapere le regole diventa superfluo e a contare sono solo le sensazioni che si percepiscono a ogni placcaggio, ad ogni meta e calcio, a ogni coro alzato abbracciando il proprio vicino che, il più delle volte, è un bimbo dagli occhi lucidi che con quei ragazzi in mezzo al campo condivide il sogno di una vittoria dolorosa, ma necessaria.
E poi una meta dopo l’altra l’Italia ci ha accompagnati verso la concretizzazione di una sensazione che tutti dimenticheremo con difficoltà.
Il cielo pian piano si è tinto di azzurro, lasciando spazio a un tramonto che a inizio giornata sembrava impossibile, e quel clima di festa misto a incredulità è diventato improvvisamente lo sfondo di un vero e proprio concerto che, grazie alla potente voce di Sophie and the Giants, ha unito gli appena sconfitti scozzesi alla folla di italiani in visibilio.
Ieri è stata la prova che uno sport che quasi tutti percepiamo come distante, lontano dal nostro immaginario, può essere invece capace, con la sua forza, il suo contatto sia fuori che dentro al campo, i suoi colori e le sue vibrazioni, di avvicinare a sé chi di rugby non sa nulla, lasciando una scia indelebile della propria potenza.
Nella foto di apertura, Garbisi e Ioane celebrano la meta di Brex (foto Emmanuele Ciancaglini/Federugby via Getty Images)