Gli altoparlanti intonano I will survive ed è la colonna sonora perfetta per questo rugby dell’emisfero sud, tutto trincea e sacrificio, ma anche guizzi improvvisi, lampi di genio. Che lezione per l’Irlanda, ma che partita per i 79mila sugli spalti. Ci sono dei flash. L’Irlanda che si schiera davanti agli All Black che fanno la haka con il segno di infinito. Ardie Savea che entra in campo per il riscaldamento e struscia le mani in terra e accenna un segno di preghiera. I trentamila irlandesi sugli spalti che coprono l’haka con un urlo continuo, un boato. Il pubblico che parte a cantare sulla canzone della Union Bayonne in una sosta del gioco.
Gli All Black vincono 28-24 e vanno in semifinale perché fanno tre mete (Fainga’Anuku, Ardie Savea e Will Jordan) ma soprattutto non ne prendono dopo il giallo a Cody Taylor (il secondo della partita dopo quello di Aaron Smith) e la meta di penalizzazione, anzi fanno tre punti. Un piazzato che non conta nulla ai fini del punteggio, ma tantissimo sul piano mentale. Ian Foster, capo allenatore della Nuova Zelanda lo spiega bene: “L’Irlanda ha sempre vinto contro squadre che prendono gialli contro di loro e prendere dei gialli con il loro gioco è facile. Ma noi non abbiamo perso”.
Gli All Black vincono per i quattro minuti finali, quattro minuti, pensateci bene cosa sono quattro minuti di attacco, senza più ossigeno, per cercare la meta che vale la vittoria. Trentasette fasi, e niente punti. Quattro minuti di Irlanda disperata e di Nuova Zelanda perfetta in difesa, senza fare errori, senza perdere mai le gambe degli avversari, soprattutto di Aki e di Lowe, quelli che in questo mondiale avevano fatto sempre la differenza, ma non oggi, non stasera in questo stadio che non smette mai di urlare e cantare. Che peccato che questa non sia la finale se lo sarebbe meritato il rugby, perché questi sono i più bravi del mondo, questi giocano come pochi altri. Lo dice anche Andy Farrell, il capo allenatore irlandese: “C’erano due grandi squadre in campo, sarebbe stata una bella finale”. “E’ contro squadre come queste che si gioca il rugby più bello. Sarebbe stata la finale, come Francia-Sudafrica domani”, gli fa eco Foster.
L’Irlanda perde perché davanti alla difesa degli All Black non ha un piano B, perde perché il suo uomo migliore, Johnny Sexton, nel giorno che lo chiamava a dimostrare in maniera definitiva quanto vale non riesce mai a incidere sbagliando anche un piazzato che avrebbe dato la possibilità ai suoi di sfruttare quelli successivi per prendere il vantaggio. Come quattro anni fa in Giappone è lui che cede sul piano mentale. Mai un’idea, mai un guizzo, un calcio di spostamento degno di nota.
E se il tuo uomo migliore scompare c’è poco da fare, se il suo diretto avversario, Richie Mo’Unga, gli passa davanti con un buco centrale in prima fase che vale la partita (la meta di Will Jordan), all’Irlanda non resta che sperare in un lento erodere metri, in un errore dei neozelandesi, in un fallo di troppo. Johnny in conferenza stampa ha gli occhi lucidi. Non giocherà mai più con l’Irlanda, avrebbe preferito un altro addio. “Con quella meta ci hanno preso di sorpresa. Però abbiamo reagito”. Farrell avrebbe qualcosa da dire sull’arbitraggio, su come sono state giudicate le mischie chiuse, ma “non vogliamo essere dei cattivi perdenti, quindi lode agli All Black che sanno quando strapparti la partita di mano”. Strapparti la partita e quattro anni straordinari che ora sono un amarissimo ricordo. Foster guarda al futuro e pensa all’Argentina: “Sarà un grande match, una grande partita dell’emisfero sud”.
Nelle foto l’esultanza a fine partita e la meta di Ardie Savea, eletto Player of the match (Foto di Justin Setterfield – World Rugby/World Rugby vía Getty Images)