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Dopo 39 (trentanove!) anni, le prime otto al mondo sono le stesse del 1978

Di Luciano Ravagnani

Nel numero di “All Rugby” del 31 marzo 1978 (sì, proprio 1978: era l’All Rugby del quale l’attuale che avete in mano è l’esaltante riproposizione) un titolo, “È caduto un Impero”, annunciava l’entrata della Francia – quell’anno seconda dietro al Galles nel 5 Nazioni – nell’International Rugby Board, cioè nell’organismo che gestiva il rugby nel mondo.

Da sette (Inghilterra, Scozia, Galles, Irlanda, Nuova Zelanda, Sudafrica e Australia), l’IRB passava a otto paesi membri, con 2 rappresentanti ciascuno.  Riandando alla storia dell’Irb – che non riassumiamo, basterà dire che solo 10 anni prima erano state ammesse le tre grandi dell’Emisfero Sud – sembrava veramente la caduta di un impero. In effetti, nelle intenzioni, la Francia, che guidava il resto dell’Europa, diventava il gendarme di tutto quel rugby che infastidiva perché inquinato dai soldi che giravano nella stessa Francia, dalle doppie stagioni in Italia (pagate), dal rugby di Stato in Romania e Urss.  Niente caduta, quindi, ma più potere.

La nuova IRB, che per un certo tempo aveva avuto l’Inghilterra forte di addirittura sei voti contro due o uno degli altri membri, per la prima volta – però – si trovò con la classica serpe in seno. La Francia si sottomise alle direttive severe dell’IRB ma cominciò a chiedere: dapprima il controllo totale della Fira (federazione europea) e niente più accordi diretti tra le anglosassoni e gli altri paesi extra-Irb (Olanda, Portogallo, Argentina, Canada, Usa, Giappone ecc.)  e, poi, addirittura una Coppa del Mondo, con l’aiuto dell’Australia da sempre ossessionata dal League e dall’Aussie Rules.

Tredici anni dopo, nel 1991, a primo mondiale già giocato nel 1987 in Nuova Zelanda, il “controllo” dell’Irb si allargò a Italia, Argentina, Canada, Giappone. (tutte con un voto, però).

Ovviamente la strategia era sempre la stessa: far pensare alla crescita, in effetti difendere, blindare il potere.  Regolamenti, arbitri, mezzi economici, calendario internazionale: tutto in mano all’IRB. In Italia li definivano “parrucconi”, in realtà gente da business esasperato, come dimostrò l’apertura al rugby prof dopo il mondiale 1995 in Sudafrica. Chi era forte si adattò meglio, ovviamente, anche se non mancarono gli inconvenienti (Irlanda, Galles, Scozia…). La successiva creazione delle Aree Zonali (sei nei Cinque Continenti), rappresentate con diritto di voto, apparentemente ha democraticizzato quella che da IRB è diventata pomposamente WORLD RUGBY (come dire: il rugby siamo noi), ma la manfrina è sempre la stessa. Basti pensare alla divisione in categorie, le famose Tier, che – a esempio – mettono freni all’Italia nel caso desiderasse incontrare Georgia (e sarebbe il caso), Romania, Russia ecc.

Certo, l’attività si è più allargata. Ma sfugge qualcosa a World Rugby? Cosa è accaduto, di concreto, da quel marzo 1978 in cui era “caduto un impero”?

La dimostrazione è il ranking internazionale. Dopo 39 (trentanove!) anni, le prime otto al mondo nell’estate 2017 sono le stesse del 1978. Quasi con lo stesso ordine di valori di allora. Trentanove anni da “Gattopardo” (cambiare tutto perché niente cambi).

Dal 1986 si sono giocati 8 campionati del mondo di rugby. Lo stesso numero di quelli giocati dal calcio e dal basket, due sport “mondiali” che ci servono per paragone di quel che significa “diffondere” uno sport.

Consideriamo le ammesse ai quarti di finale, cioè le migliori otto di ciascun mondiale.

RUGBY. I 64 posti complessivi dal 1987 al 2015, sono stati occupati da 12 Nazionali. Le solite otto (con Nuova Zelanda, Australia, Francia, Sudafrica – assente per apartheid nei primi due – sempre presenti), più Argentina, Figi, Samoa, Canada (nell’ormai lontano 1991).

CALCIO. I 64 posti dal 1986 al 2014, sono stati occupati da 31 Nazionali.  Le sempre presenti sono state soltanto Brasile e Germania, ma il mondiale lo hanno vinto anche Italia, Argentina, Francia, Spagna.  Fra le novità, una per continente, Corea, Senegal, Costarica, Croazia, Turchia

BASKET. I 64 posti dal 1986 al 2014 sono stati occupati da 21 Nazionali e soltanto gli Stati Uniti sono stati sempre presenti. Delle prime 8 del 1986 soltanto Stati Uniti, Brasile e Spagna sono ancora nel ruolo. Nei quarti di finale hanno trovato accesso anche Australia e Nuova Zelanda.

È in un contesto di sport così ingessato che l’Italia si appresta alla rivoluzione al proprio interno.  Insistiamo su rivoluzione perché sinonimo di scossa violenta, quella necessaria per risvegliare. Il cambiamento ci convince di più, ma presuppone tempi lunghi. Nessuno pare voglia pazientare, però. Avendo pazienza si potrebbe utilizzare il tempo per studiare veramente il rugby, chi lo gioca e i Paesi che lo giocano al meglio. Insomma imparare la storia, cominciando dalle Accademie e dai corsi per tecnici. Forse basterebbero due ore in meno di sollevamento pesi alla settimana. Si è provato con tutto, perché non provare impegnando la testa. È una cosa che gli italiani, in genere sanno fare bene. Quando vogliono.

Questo articolo è il seguito di quello “Noi e loro” pubblicato nei giorni scorsi su questo stesso sito e apparso nel numero 114 di Allrugby, lo scorso mese di maggio

Nella foto di David/Gibson Fotosportit, Sonny Bill Williams in uno dei test fra All Blacks e Lions.

 

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