
Allan; Ioane, Brex, Menoncello, Capuozzo; P. Garbisi, Page-Relo; Vintcent; xy7; xy6; Lamb; xy4; Riccioni, Lucchesi, Fischetti. A disposizione: Ceccarelli, Nicotera, Varney, Mori, etc.
È una formazione nemmeno tanto fantasiosa che l’Italia potrebbe schierare la prossima stagione, con 12 titolari su 15 in forza a club stranieri.

Al di là del giusto orgoglio per il riconoscimento che i giocatori italiani ottengono all’estero, tuttavia, questo dato fotografa in modo impietoso l’incapacità del rugby di crescere sia a livello nazionale che come movimento globale. A questo punto dobbiamo prendere atto che venticinque anni di Sei Nazioni non hanno rafforzato la visibilità del rugby all’interno dei nostri confini nazionali, non hanno elevato il campionato a prodotto di fruizione di massa e non hanno attirato sponsor in grado di rafforzare il movimento italiano nel suo complesso e dare ai nostri talenti il giusto palcoscenico: il risultato è che un numero sempre più elevato di giocatori va all’estero, non solo le star come Menoncello, Brex e Fischetti, ma anche i giovani in cerca di un futuro. Francesco Volpe ne parla in modo dettagliato nel numero 201 di Allrugby, in distribuzione a fine mese.
Rieko Ioane, primo a sinistra, sostituirà Jordie Barrett (qui al suo fianco), la prossima stagione al Leinster (Photo by World Rugby – Handout/World Rugby via Getty Images)
È esattamente quello che accade alla Georgia e all’Argentina, paesi che negli anni passati, però, non hanno certo goduto delle risorse economiche delle quali ha beneficiato l’Italia.
L’esodo verso campionati più ricchi e più solidi, per la verità non riguarda solo il nostro Paese, giocatori di alto rango se ne vanno anche dall’Inghilterra, dal Galles, dalla Nuova Zelanda, dall’Australia e dal Sudafrica. E se anche i neozelandesi sono costretti a lasciar partire i loro talenti migliori, qualcosa non funziona: vogliamo fare della Nuova Zelanda quello che è il Brasile nel calcio, ossia un grande paese esportatore di talenti?
Nella sostanza, trent’anni di professionismo non hanno saputo redistribuire i profitti della nuova era, rendendo il vertice ancora più ristretto rispetto ai tempi del dilettantismo romantico del XX secolo. Richard Cockerill, coach della Georgia, se ne lamenta nell’intervista esclusiva che sarà pubblicata sul prossimo numero di Allrugby (clicca qui per abbonarti)

Lo sport-business ovale in questo momento funziona, non senza difficoltà, solo in Francia, benché anche i club di Top14 abbiano il loro daffare per far quadrare i bilanci, e…a Dublino. La Francia tuttavia è diventata l’Eldorado del rugby internazionale e i risultati delle coppe europee confermano che per la maggior parte dei club è sempre più difficile tenere il passo dello Stade Toulousain, del Bordeaux, de La Rochelle, del Tolone, del Racing, del Lione. Tra Champions e Challenge Cup, quattro semifinaliste su otto sono francesi, due sono inglesi, una è irlandese, il Leinster, e una è scozzese, Edimburgo. Marciare a quelle velocità diventa sempre più difficile, ci riescono in pochi.
Le sudafricane, con ogni evidenza, hanno snobbato gli appuntamenti di coppa: da quelle parti si investe tutto sugli Springboks e, a livello domestico, la competizione che più attira il pubblico è ancora la vecchia Currie Cup.
Imitare il calcio rischia di trasformare il rugby in un nuovo Icaro, volando troppo in alto ci si bruciano le ali.
I manager che governano World Rugby con lo scopo di fare del rugby una gallina dalle uova d’oro stanno, di fatto, tirando il collo alla gallina.
Quella italiana, in ogni caso, le sue uova migliori ormai le depone altrove. A noi resta la soddisfazione di poterne di tanto in tanto assaggiare il gusto. E va bene così sperando che nessuno metta i dazi sulla loro importazione. E che i nostri pollai qualche gallina da mandare all’estero continuino a produrla. Almeno finché ci saranno aie nostrane.
Nella foto del titolo (di Stefano Delfrate) Tommaso Menoncello in meta contro la Francia, dietro di lui Tommy Allan e Nacho Brex, tutti e tre la prossima stagione giocheranno in Francia.