
Non parlarono solo i capitani quel venerdì, vigilia a Roma di test-match, ma anche Papa Francesco volle dire la sua sul rugby come aveva già fatto in passato e come farà più volte nel corso del suo pontificato terminato oggi. Per la prima volta una nazionale di rugby, anzi addirittura due, Italia e Argentina, quel 22 novembre 2013 vennero ricevute dal Pontefice nella sala Clementina. Emozioni, brividi e persino qualche lacrima sui volti segnati di quegli omoni che dopo il discorso papale frantumarono ben presto l’etichetta ingessata di questi incontri. Sotto gli occhi atterriti del camerlengo, il pilone Matias Aguero abbracciò direttamente il Papa, quasi un placcaggio alto, Mauro Bergamasco lo baciò su una guancia e Martin Castrogiovanni, dopo un incerto inchino che pure doveva avere provato a lungo su consiglio di chissà chi, chiese al Papa di benedire una manciata di rosari che tirò fuori da una tasca dalla tiratissima giacca. Giazzon, poi, gli parlò a lungo viso a viso bloccando la fila. Tutto per il divertimento di Francesco che dava l’impressione di trovarsi fra vecchi amici come il pilone Ayerza che era stato fra i suoi chierichetti a Buenos Aires: pensate i casi della vita, pensate a ritrovarvi a Roma dopo tanti anni uno diventato Papa e un altro diventato giocatore della nazionale.
Amici come i rugbisti degli Espartanos che aveva conosciuto e sostenuto durante tutta la sua carriera ecclesiastica iniziata come parroco nei barrios più disagiati di Buenos Aires. Gli Espartanos, ora diffusi in tutta l’Argentina, sono rugbisti che si impegnano nel recupero dei detenuti: prima portano la palla ovale in carcere, poi seguono chi ha finito di regolare i conti con la Giustizia aiutando gli ex carcerati a trovare casa e lavoro. Un progetto immane, durissimo, che ha ispirato iniziative simili anche in Italia e che fin dall’inizio ha contato sul sostegno del futuro Papa Francesco. E che felicità quando una delegazione degli Espartanos è venuta in trasferta a Roma con l’aiuto della Capitolina nel 2015: una festa in Vaticano quell’incontro fra ex detenuti rugbisti e il Pontefice che tifa sì per i calciatori del San Lorenzo, che ama il basket, ma che non perde mai l’occasione per lodare le virtù del gioco del rugby (sotto trovate il discorso che pronunciò davanti a Parisse e compagnie e ai Pumas).
Di certo Papa Francesco è il pontefice che ha ricordato in più occasioni e con effettiva competenza il rugby e che ha voluto incontrare i giocatori azzurri e argentini in un contesto importante e ufficiale come il ricevimento nella sala Clementina.
In passato rari episodi si registrano fra mete e Vaticano. Nel 1979 il Rovigo neo scudettato con Carwyn James venne accolto da Papa Wojtyla in un incontro che fece vacillare la leggenda che vuole il pontefice polacco fra i praticanti del rugby almeno a livello giovanile: chi partecipò a quell’incontro ebbe invece l’impressione che il Santo Padre non ne sapesse un granché di palla ovale.
Nei primi anni Duemila anche una circostanza tragicomica: la nazionale in cui ancora giocava Dominguez venne inclusa per le opportunità di una foto con il Papa (sempre Wojtyla) durante un’udienza del mercoledì. Com’è come non è, la foto venne diffusa con la seguente didascalia: “Il Papa con la nazionale dei disabili”. Vabbè, può capitare. Più di recente Lawrence Dallaglio guidò un gruppo di internazionali inglesi e di Lions sempre a un’udienza del mercoledì per una foto con il Papa.
Preoccupazione poi nel 2001 per il team manager dell’Irlanda che accompagnò la nazionale in visita al Vaticano prima del match al Flaminio con l’Italia per il Sei Nazioni: il pilone Peter Clohessy, detto Peter La Clava, chiese a sorpresa di confessarsi e la questione, come temuto, richiese parecchio tempo perché l’asso irlandese era ormai al termine di una lunga carriera in cui ne aveva combinato di tutti i colori.
Infine si può ricordare che l’attuale nazionale di Quesada, tra gli ammiratori di Papa Francesco, ha aderito, con tanto di foto in piazza San Pietro, alle iniziative per il Giubileo 2025
Il discorso di Papa Francesco alle nazionali di Italia e Argentina alla vigilia del test match all’Olimpico (22 novembre 2013)
Cari amici Buongiorno, vedo con piacere che tra l’Italia e l’Argentina ci sono diversi incontri sportivi! Questo è buono, buon segno, segno anche di una grande tradizione che continua tra queste due Nazioni. Vi ringrazio di essere venuti a salutarmi, con l’aiuto del Signor Ambasciatore, e anche dell’iniziativa caritativa che avete preso. Il rugby è uno sport molto simpatico, e vi dico perché lo vedo così: perché è uno sport duro, c’è molto scontro fisico, ma non c’è violenza, c’è grande lealtà, grande rispetto. Giocare a rugby è faticoso, no es un paseo, non è una passeggiata! E questo penso che sia utile anche a temprare il carattere, la forza di volontà. Un altro aspetto che risalta è l’equilibrio tra il gruppo e l’individuo. Ci sono le famose “mischie”, che a volte fanno impressione! Le due squadre si affrontano, due gruppi compatti, che spingono insieme uno contro l’altro e si bilanciano. E poi ci sono le azioni individuali, le corse agili verso la “meta”. Ecco, nel rugby si corre verso la “meta”! Questa parola così bella, così importante, ci fa pensare alla vita, perché tutta la nostra vita tende a una meta; e questa ricerca, ricerca della meta, è faticosa, richiede lotta, impegno, ma l’importante è non correre da soli! Per arrivare bisogna correre insieme, e la palla viene passata di mano in mano, e si avanza insieme, finché si arriva alla meta. E allora si festeggia! Forse questa mia interpretazione non è molto tecnica, ma è il modo in cui un vescovo vede il rugby! E come vescovo vi auguro di mettere in pratica tutto questo anche fuori dal campo, metterlo in pratica nella vostra vita. Io prego per voi, vi auguro il meglio. Ma anche voi pregate per me, perché anch’io, con i miei collaboratori, facciamo una buona squadra e arriviamo alla meta! Grazie, e che domani sia una bella partita!
Nella foto, Sergio Parisse, allora capitano degli Azzurri, consegna a Papa Francesco una maglia dell’Italia (foto Ansa-Vaticano)