Questa intervista a Franco Smith è stata pubblicata nel numero 193 di Allrugby dello scorso mese di luglio, dopo la vittoria dei Glasgow Warriors nell’URC
“Non giudicare un libro dalla copertina”, dice Franco Smith. E nel suo caso nemmeno dalle prime pagine. Perché in ogni storia sportiva ci sono alti e bassi capaci di smentire qualsiasi considerazione fatta a cuor leggero.
Franco aveva lasciato l’Italia al termine di un percorso da brividi: tredici partite sulla panchina della nazionale, tutte sconfitte, 16 mete fatte, 73 subite. Il primo atto del nuovo presidente federale, nella primavera 2021, fu sostituirlo alla guida degli Azzurri con Kieran Crowley, affidandogli la cura della “transizione”: dalle Accademie alla Maggiore.
Oggi Franco Smith viene celebrato in Scozia non solo come un vincitore: molti lo vedono già come il possibile successore di Gregor Townsend per formazione del Cardo, l’uomo giusto per trarre il meglio da ogni giocatore e rilanciare le ambizioni di una squadra che ultimamente ha promesso tanto e vinto poco.
Nel 2023, al termine della sua prima stagione a Glasgow, i tecnici lo elessero miglior allenatore dello United Rugby Championship; il mese scorso è stato trionfatore nel torneo con due capolavori in trasferta: la vittoria in semifinale contro il Munster a Thomond Park e, la settimana successiva, il successo al Loftus Versfeld di Pretoria contro i Bulls, sua ex squadra da giocatore.
Due volte vincitore della Currie Cup come allenatore dei Cheetahs (2016 e 2019), Smith riflette sui traguardi raggiunti con i Warriors dal suo buen ritiro di Bloemfontein, dove ha raggiunto la moglie Tania e la figlia Cara, diciotto anni, rimasta nella “città delle rose” per finire la scuola.
L’ex coach del Benetton non è tipo di grandi esternazioni, la sua felicità si limita a un commento misurato: “sono molto fiero del risultato, è stato il frutto dei tanti sacrifici fatti negli ultimi mesi con lo staff e con i ragazzi, una crescita costruita nel tempo, quel tempo che non ho avuto in Italia”.
Il rammarico generato da quell’esperienza sulla panchina azzurra non è ancora del tutto assorbito.
L’etica maniacale del lavoro, che a Glasgow ha dato risultati eccellenti, da noi in certi momenti si è rivelata un boomerang.
“Un sistema di gioco è composto da cinque “big rocks” – spiega -: l’attacco, la difesa, le fasi statiche, i punti di incontro e il gioco al piede. Ognuno di questi capisaldi può essere migliorato, sempre, dettaglio per dettaglio, individualmente e collettivamente: come passi il pallone, come lo presenti quando vai a terra, come salti in touche, come placchi etc. C’è sempre qualcosa che puoi fare meglio e il livello internazionale esige che tutto questo venga fatto al massimo”.
Una filosofia che si traduce in una parola sola: lavoro, lavoro, lavoro.
“Sono arrivato a Glasgow nell’estate del 2022- racconta – e abbiamo dovuto cominciare la prima stagione senza poter disputare nemmeno un’amichevole: la prima, con i Worcester Warrios fu cancellata per il loro problemi economici, la seconda, contro l’Ulster, non poté essere giocata per la morte della Regina. Così, all’esordio, andammo a Treviso senza aver potuto affrontare alcuna verifica (33-11 per il Benetton, ndr). Nella regular season perdemmo in tutto cinque partite, due delle quali nelle prime tre giornate. Arrivammo comunque ai play off e fummo sconfitti in casa dal Munster mentre, in Challenge Cup, conquistammo la finale nella quale ci batté il Tolone. Credo che quelle esperienze siamo servite per fare uno scatto in avanti nel torneo successivo, quello di quest’anno. Nel quale abbiamo chiuso al primo posto per numero di difensori battuti (485), clean breaks (183) e per percentuale di placcaggi riusciti (91%) e al secondo per metri guadagnati (di un soffio dietro al Leinster, ndr). Questo per dire che il successo si costituisce gradino per gradino, lavorando sui principi che elencavo prima”.
Un percorso che non è stato possibile creare in Italia…
“Ho preso la nazionale alla fine del 2019, dopo il Mondiale in Giappone. Abbiamo fatto tre partite e a marzo 2020 tutto si è interrotto per il covid. Non è un alibi, ma chiaramente fino all’autunno non abbiamo più potuto né giocare né lavorare insieme. In calendario c’era un tour estivo in Usa, Canada e Uruguay che avrebbe potuto essere molto utile per consolidare certe strategie e magari vincere qualche partita, che non fa mai male. Invece ci siamo trovati in autunno a giocare i due match conclusivi del Sei Nazioni (Irlanda e Inghilterra, ndr) e poi quel torneo, denominato Autumn Nations Series, che abbiamo dovuto affrontare chiusi in una bolla, per più di un mese, una situazione che si è rivelata molto pesante per i giocatori”.
Dicono che fossi troppo esigente, chiedessi troppo e che molti non erano in grado di reggere quella pressione.
“Alcuni giocatori nel frattempo avevano concluso la loro carriera internazionale, Zanni, Budd, Hayward… nel gruppo c’era un solo tallonatore con una certa esperienza, Bigi. Ho aperto le porte ai giovani cresciuti grazie al lavoro di Stephen Aboud e Franco Ascione nelle accademie (Trulla, Lamaro, Paolo Garbisi, Niccolò Cannone, Lucchesi, Zilocchi, ndr). Nessuno di loro però aveva esperienza internazionale e nemmeno di un certo tipo di intensità di lavoro. Sono stato costretto in condizioni difficili a cercare di introdurre una mentalità che in quel momento mancava: non credo che Paolo Garbisi, all’epoca del suo esordio in nazionale, arrivasse alle dieci partite con la maglia del Benetton. Poi sono diventati eleggibili Ioane e Brex, che oggi sono titolari inamovibili con Quesada, ma allora erano soltanto all’inizio del loro percorso di alto livello. Il secondo anno (2021), nel Sei Nazioni abbiamo potuto finalmente dare una certa continuità al lavoro, purtroppo non abbiamo vinto neanche una partita, ma il frutto di quella crescita, secondo me, si è visto nella Rainbow Cup che il Treviso vinse a fine stagione, dopo aver finito la regular season del Pro14 avendo perso tutti gli incontri”.
Insomma, la filosofia di Franco Smith è che niente accade per caso. Ci sono passaggi essenziali da affrontare, gradini da superare.
“Sono convinto che da qui al 2031 l’Italia sarà una delle squadre più forti in circolazione: a quella data i ragazzi avranno raggiunto la piena maturazione e la maggior parte di loro avrà alle spalle un’ottantina di cap. Il bacino si è allargato, quando sono arrivato io non c’erano né Emergenti, né Nazionale A, il lavoro di crescita lo dovevi fare con la Maggiore, le franchigie avevano l’esigenza di vincere le loro partite, non quella di di sviluppare i giocatori per la nazionale e, purtroppo, il tempo a disposizione era quello che era. Con Quintin Kruger individuammo le aree necessarie per lo sviluppo fisico, cosa che al Benetton adesso stanno facendo benissimo con Jim Molony, arrivato a febbraio 2021. Oggi Lamaro, Ruzza sono giocatori di standard assoluto sul piano internazionale. Io nel mio ultimo anno in Italia mi ero occupato di tutta l’area intermedia fra le accademie e la nazionale di Kieran. Allargare la base era una priorità di cui io da ct avevo toccato con mano la necessità”.
Gli scozzesi rispondono meglio degli italiani agli stimoli di un tecnico maniacale come Franco Smith?
“La Scozia ha problemi simili all’Italia, nel senso che non si gioca a rugby a scuola, come in Nuova Zelanda o in Sudafrica. Per questo c’è molto da lavorare sui dettagli, sulla crescita. Anche fisica, oggi nemmeno il tennis può prescindere dalla capacità di dominare il gioco sul piano muscolare. Se tu metti di fronte una squadra di ragazzi sudafricani con poca esperienza di gioco, ma una media di 1,90 per cento chili, e un gruppo di giocatori di 1,70, questi saranno sicuramente sempre in difficoltà nell’uno contro uno.
Poi c’è l’aspetto caratteriale: il carattere significa avere la voglia di mettere in campo il cuore, la personalità è saperlo fare nei momenti che contano, nel modo giusto, mettendo la tua voglia nel piano di gioco con gli strumenti adeguati. Quando Zander Fagerson ha preso il cartellino giallo a Thomond Park (contro il Munster, nella semifinale di URC, ndr), la squadra si è stretta in modo solidale, tutti si sono aiutati a vicenda, abbiamo reagito all’inferiorità numerica e fatto meta con Cancelliere”.
Dicono che a Glasgow i giocatori stravedano per te, molto più di quanto facessero gli italiani.
“Penso che questo dovreste chiederlo ai ragazzi che ho avuto a Treviso e con i quali ho potuto lavorare per un certo tempo, costruendo i risultati, stagione dopo stagione, Silvio Orlando, Alessandro Zanni, Simone Favaro, Francesco Minto…Il mio obiettivo dovunque vado è mettere a disposizione dei giocatori gli strumenti per arrivare al massimo delle loro potenzialità. E questo massimo lo puoi sempre spingere un po’ più in là perché nessuno sa quanto è lunga una corda finché non è stata srotolata per intero”.
Una volta hai detto che il problema in Italia è che viene delegato ai club, prima, trasformare un ragazzo sedentario in uno sportivo, poi far sì che diventi un giocatore di rugby, tutto ciò facendolo divertire, sennò abbandona…
“Serve un percorso di avvicinamento all’alto livello. Cosa di cui a suo tempo discussi a lungo con Amerino (Zatta, ndr) e con Antonio Pavanello, che avevo avuto come giocatore. Oggi al Benetton sono riusciti a creare un sistema: i ragazzi sognano di giocare per la U16, poi di entrare nella U18, di qualificarsi per l’Accademia, infine di arrivare alla prima squadra e più su ancora. All’inizio tutto questo non c’era. Avevamo parlato di questo anche con Michael Bradley alle Zebre, con il quale avevamo messo in atto alcune strategie. Nel 2021 le Zebre finirono la stagione davanti al Treviso, con quattro vittorie”.
I prossimi obiettivi con i Warriors?
“Far capire a ciascun giocatore che può crescere ancora. Il mio obiettivo non sono i risultati, ma dare un senso, un rilievo alle cose, è questa la tradizione in italiano del termine “significance”, no? Ecco “significance” più che vincere è il mio traguardo di domani”.