Così parlava Massimo Brunello alla fine dello scorso mese di agosto, alla vigilia dell’esordio sulla panchina delle Zebre nello United Rugby Championship. Buon senso e propositi semplici. Molti dei quali mantenuti in questa prima parte del torneo, con le vittorie su Munster e Ospreys e prestazioni, nel complesso, sempre solide e dignitose. Dal numero 194 di Allrugby.
È stata una carriera lunga e tortuosa, quella che a 57 anni ha portato finalmente Massimo Brunello a una franchigia. “La gavetta me la sono fatta tutta intera”, sorride.
Una gavetta in cui ci sono state comunque parecchie soddisfazioni: i due scudetti con il Calvisano (2017 e 2019), le tre vittorie con la nazionale U20 nel Sei Nazioni del 2022, il terzo posto nel 2023, i successi sull’Inghilterra, quello sulla Francia a Beziers, con il Sudafrica (2023) ai Mondiali, traguardi mai raggiunti prima dall’U20 dell’Italia.
“Tutte bellissime emozioni, nessuna esclusa. Non ho nessun rammarico, niente da recriminare, anche se penso che il salto all’alto livello avrei potuto compierlo prima”.
Ripercorriamoli allora i passaggi del Brunello allenatore, dopo l’esordio in serie B con il Badia, vent’anni fa.
“Ho fatto la mia prima esperienza da capo allenatore a Rovigo, due stagioni, dal 2007 al 2009 quando raggiungemmo i play off che il club inseguiva da 11 anni: in squadra avevo 10 argentini, tre sudafricani, due neozelandesi, ho dovuto imparare subito a nuotare e lì ho cominciato a capire quali erano le mie caratteristiche migliori, quelle su cui avrei dovuto puntare nella gestione di gruppi composti da tanti ragazzi diversi tra loro”.
E quali sono queste caratteristiche?
“Diciamo che ho sempre cercato di privilegiare la coesione del collettivo, lo spirito di squadra, il fatto di stare bene insieme, aiutarsi. Ho usato spesso il termine “famiglia” che può sembrare un parolone un po’ enfatico, ma rispecchia i valori in cui credo: essere uniti, condividere obiettivi chiari. Poi certo devi essere credibile in quello che fai e dici sul campo, non basta essere un buon padre”.
Dopo Rovigo, sei stagioni in federazione, tra nazionali giovanili e accademie, poi Calvisano e la nazionale U20, dal 2021: quindici anni in totale, prima di affacciarsi all’alto livello cui aspiravi. È questa la gavetta di cui si parlava prima?
“Ci sono stati vari passaggi ma, a ognuno di questi, lo sbocco verso una franchigia non c’era. I posti erano occupati. Diciamo che quei quindici anni, anche se mi hanno dato tanto, avrebbero potuto essere ridotti almeno alla metà. Nel senso che io mi sentivo pronto già prima di quest’anno. Ma si tratta anche di occasioni: David Sisi a 31 anni, sarà al mio fianco nello staff come allenatore della touche…Io devo dire che anche se sono arrivato tardi non mi sento comunque inferiore a nessuno”.
E adesso le Zebre, una sfida molto impegnativa: nelle recenti stagioni la squadra è sempre arrivata irrimediabilmente ultima e quest’estate ha lasciato partire dieci giocatori, ingaggiandone solo tre nuovi. Difficile poter dire che la rosa si è rinforzata. Cosa si dice quando si entra un spogliatoio così?
“I dati sono indiscutibili, non stiamo parlando di opinioni. Per questo il mio primo obiettivo è fare leva sul senso di appartenenza dei ragazzi, pur sapendo che le Zebre sono una realtà anomala, sono una franchigia federale, non un club con una lunga storia di legami con il suo territorio”.
Da dove si parte?
“Da alcuni punti cui si possono ancorare le certezze della squadra, per esempio la mischia chiusa che ha le caratteristiche per farsi rispettare, dal drive, dalla difesa, che negli ultimi anni è stata quella che ha concesso più punti nel torneo”.
Ecco la difesa: stiamo parlando di un gruppo che negli ultimi anni ha concesso una media di circa cento mete a stagione…
“Detto che sicuramente alcune caratteristiche fisiche in questo gioco sono determinanti, perché è difficile fermare un giocatore che pesa 20 o 30 chili più di te, io resto convinto che molto nel rugby dipenda dalla determinazione, dalla voglia, dalla disponibilità al sacrificio. La testa resta un muscolo fondamentale. Altrimenti come ti spieghi che l’Argentina, nella prima partita di questo Rugby Championship, batte gli All Blacks segnando quattro mete, mentre la settimana dopo ne concede sei, realizzandone una sola? Certo ci vogliono competenze, qualità, ma io sto cercando di far leva anche sull’orgoglio dei ragazzi, cerco di tirargli fuori una certa cattiveria, sportivamente parlando. Siamo la squadra contro cui gli altri vengono a fare esperimenti, di cui approfittano per dare ad alcuni giocatori un turno di riposo. Non deve più essere così. Bisogna combattere, l’atteggiamento di partenza deve essere diverso. E per questo serve innanzitutto essere uniti, solidali, credere in quello che facciamo insieme”.
Resta il fatto che la squadra in questi anni è stata la più debole del lotto. Ci vorrà qualche intervento anche sul piano tecnico-tattico.
“Cercheremo di non dover difendere per ottanta minuti, perché se lasci sempre la palla agli avversari diventa difficile, alla lunga, sopportarne la pressione. Per questo proveremo a tenere un po’ di più la palla in mano, cercando anche di essere imprevedibili per quello che possiamo. Intendo dire che ci vorrà equilibrio nel possesso, nell’uso del gioco al piede, dovremo essere bravi a individuare i momenti di debolezza di chi ci sta di fronte per provare a colpirli lì, senza attaccare in continuazione in modo scriteriato”.
Nella preparazione avete fatto ricorso a un certo numero di permit players, Bertaccini, Locatelli e altri ancora. I ragazzi provenienti dal campionato possono diventare una risorsa per le Zebre?
“Io penso di sì, l’approdo all’URC può essere un incentivo per loro, l’occasione per assaporare un livello più alto, e un opportunità per noi per allargare la rosa in certi momenti complicati, sapendo che non abbiamo i mezzi economici per fare grandi interventi sul mercato”.
Queste prime settimane di lavoro hanno dato le risposte che volevate?
“Lo spirito e la disponibilità all’impegno sono stati molto positivi, qualche cosa cominciamo a vedere anche sul piano del gioco, con Glasgow non abbiano concesso punti, e questo mi ha fatto piacere. Ci saranno momenti difficili, lo sappiamo, ci troveremo in situazioni di emergenza, qualche ragazzo dovrà sacrificarsi in un ruolo non suo a causa di qualche infortunio. Tutto questo sarà possibile affrontarlo solo con un gruppo unito, come si fa in famiglia davanti a un problema”.
Quali sono le squadre che ritenete potenzialmente alla vostra portata?
“Sulla carta le gallesi, forse Edimburgo qui in casa, e poi dovremo essere bravi a cogliere i momenti di difficoltà delle altre: la scorsa stagione con Ulster, nonostante il loro blasone, si poteva vincere, finì 36-40. Se la squadra impara a battersi, a restare in partita, a combattere senza cedimenti credo che il nostro percorso potrà diventare senz’altro positivo, ovviamente nei limiti di tutto quello che sappiamo”.
Quali obiettivi minimi, per potervi tra nove mesi dichiarare soddisfatti?
“Aver trovato un’identità di gruppo e di gioco, nei termini di cui sopra. E non finire ultimi”.