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In ricordo di Lino Maffi, gran “cardinale” del rugby italiano, pubblichiamo quest’articolo di Federico Meda apparso nel mese di luglio 2022 sul numero 171 di Allrugby. Protagonista di almeno cinquant’anni di storia ovale in Italia, Lino se n’è andato a 88 anni. A lui vanno la riconoscenza e l’affetto di tutti quelli che l’hanno conosciuto e che da lui hanno imparato ad apprezzare uno sport di cui era prima di tutto un grande appassionato oltre che un divulgatore e un teorico.  Ci mancheranno le sue telefonate in cui commentava le vicende del gioco con uno spirito sempre in equilibrio tra il serio e il faceto. Era ironico e rigoroso, paterno e severo. In tanti gli abbiamo voluto bene. 

Il metodo Maffi 

Lino è stato l’archetipo di un certo modo di intendere il rugby: dare tutto se stesso, inteso come tempo, ferie, casa e famiglia. Attivo per quarant’anni come allenatore, formatore e manager, c’è il suo zampino negli ultimi 4 scudetti dell’Amatori Milano

“Un tipo stilé, sempre perfetto, mai visto litigare o creare problemi, sempre a modo e aggiornato”, Luciano Ravagnani

La villetta in quel di Rho avrebbe bisogno di una rinfrescata ma l’accoglienza è da cinque stelle ed è probabilmente la stessa ricevuta alla fine degli anni Ottanta da un giovane Diego Dominguez, transitato qualche giorno da queste parti dopo le Universiadi in Francia e in procinto di accasarsi all’Amatori. Sul frigorifero nel tinello, troneggia un esemplare di bottiglia di Ferro China Bisleri, chissà se risalente alla sponsorizzazione del Rugby Milano, portato in pochi anni dalla Serie C alla Serie A, una delle sue tante avventure. Se i muri potessero parlare ci stupiremmo di quanto del nostro rugby sia passato da questa casa e da questa cittadina alle porte di Milano che, per dirla alla Marco Pastonesi, “è talmente legata al rugby da avere una “acca” nel toponimo”.

Il padrone di casa è Lino Maffi, anni 86, e ha lo stesso sorriso di quando ha iniziato a giocare ventenne come mediano di apertura (“ma non ero forte”, si schermisce). Parlarci è come avere a che fare con Gianni Minà quando racconta di una sera a cena con Robert De Niro, Alì e Sergio Leone: all’esordio ai Tre Martiri contro il Rovigo “ho incontrato Franco Basaglia, lo psichiatra”, in trasferta in treno per la promozione in Serie A con il Rho “a Firenze è salito Gino Bartali”, “una volta venni convocato da Gianni Agnelli per aprire una sezione rugby nella Sisport, il celebre dopolavoro Fiat”, “in Sudafrica, nel 1995 con Nelson Mandela…” eccetera. Potremmo andare avanti a lungo ma i suoi meriti sono certamente altri, a partire dall’essere il discepolo di Julien Saby, ex allenatore dell’Amatori di Cicogna, prima della guerra, nonché di Rovigo molto più avanti, tra gli animatori dell’Ecole du Jeu de Rugby, alla quale si devono i primi diplomi di educatore federale. Diploma che conseguirà anche Lino, primo italiano a studiare nel centro di Joinville.

A fare la differenza nella sua formazione sono proprio i rapporti con gli Henry Coupon, i Robert Poulain, gli Henry Serve, i Paolo Rosi, i Carwyn James (“quante nottate a parlare di rugby!”), i Sessa, gli Invernici (c’è anche Maffi dietro la pubblicazione “Il Rugby” di metà Settanta), i Villepreux (lo zampino in questo caso è ai primordi: la tesi di laurea di Pierre), che lo rendono uno dei più fini conoscitori di rugby dello Stivale, infatti ne allena i migliori prospetti (all’epoca si chiamava Under 19) per un decennio, grande avventura ma talvolta complicata: “Il supporto della Federazione era nullo, ricordo un Torneo Fira ad Albi senza maglie al di fuori di quelle di gioco. Mia moglie e Franco Carnovali portarono delle tute con il simbolo dell’Italia un’ora prima della sfilata. Aspetto ancora il rimborso”. Lui ci ride su ma oltre a generazioni di giocatori ha anche formato generazioni di allenatori (di cui è stato anche presidente dell’associazione nazionale): “Io non volevo allenare ma aiutare gli allenatori a farlo e di conseguenza le società a conseguire obiettivi fattibili”. Purtroppo quando si cerca di andare a fondo sui principi di allenamento e anche sui metodi, glissa volentieri, anche perché la modestia è un altro marchio di fabbrica: “Io spesso ero in tribuna ad allenare, sono i giocatori che vanno in campo. Bisogna saper scegliere bene il capitano e uno bravo a organizzare gli allenamenti”.

Per capirci qualcosa abbiamo interpellato Sergio Carnovali, suo concittadino che ha seguito le stesse orme, ovvero Rugby Rho e Asr Milano: “Lino è sempre stato un teorico del “non scelgo io il gioco ma lo decido in base ai giocatori che ho a disposizione”. Devo dire che nel recente raduno di aggiornamento per il 3° livello, con Andrea Di Giandomenico, mi è sembrato si stia tornando nel solco dei Saby, dei Maffi, quindi della scuola rhodense da lui fondata. Basata sulla semplicità e sull’intelligenza del giocatore di rugby”.

Presidente onorario di Italian Classic XV, con Gianni Amore (a sinistra), Giorgio Monaco e Marcello Cuttitta (a destra)

Lino, a detta dei tanti che l’hanno conosciuto, è stato un pioniere, uno che sperimentava volentieri: il pilone dalla chiusa per creare il mismatch con l’ala, saltatori in touche in base alla leggerezza e non all’altezza, gli allenamenti bendati per “sentire gli altri” o con un occhio solo per sviluppare la vista periferica. E poi delle trovate come il mediano di mischia a numero 8 per farlo ripartire velocissimo sfruttando l’ostruzione della terza linea sul mediano. Alcune cose le abbiamo viste fare al Giappone, al Galles, o le propongono i guru di adesso. Ma Lino le aveva pensate e attuate tanto tempo fa. Sembra un personaggio unico nel suo genere ma quando lo si fa notare è il primo a ridimensionare la questione: “Alla mia epoca ci saranno stati 200 Maffi. E se volete un nome posso farvi quello di Franco Ascantini. Il nostro era un rapporto tra gentlemen. Ci si scambiava informazioni, addirittura con Franco anche le squadre, per un rito, quello dell’allenamento invertito che attuavamo prima delle sfide tra i nostri club”. Carnovali conferma, all’epoca non c’erano segreti, “ora ci sono allenatori della Nazionale che nessuno conosce, per conseguire l’ultimo livello bisogna avere giocato in azzurro. Io ricordo Saby e Villepreux che in cambio di ospitalità davano informazioni. Era un mondo molto più collegiale”.

La vita

Nel libro di Pessina e Pastonesi su 60 anni di Rugby Rho, a Maffi è dedicato un intero capitolo che inizia così: “Lino Maffi, la carta d’identità spietatamente dichiara che è nato il 3 di giugno 1936, i polverosi annali del Rugby Rho riportano che ha militato prima come giocatore (dal 1953 fino alla fine dei Cinquanta) poi come allenatore dal 1959 al 1970”. Avendo subito un grave infortunio ancora giovane, inizia subito a seguire le orme del suo allenatore Ariosto Agosti, prendendo le redini della Giudici Cellophane neanche trentenne e trasformando una squadra famosa per l’aggressività e l’orgoglio in un XV più equilibrato e razionale. “Io ho preso spunto da Saby. Lui era più capace ma avevamo entrambi la stessa idea: lasciate libera iniziativa ai giocatori ma ben codificata da quello che voi desiderate venga fatto. Lo scontro fisico non è il principio, la supremazia va ricercata nella morale e nell’intelligenza”.

Un formazione del Rugby Rho del 1961. Lino Maffi è il primo a sinistra in basso, accanto al bambino con gli occhiali da sole

Nella vita di tutti i giorni Lino Maffi era manager di una multinazionale americana – la Grace, ramo chimico – ed essendo molto bravo si ritagliava secondo necessità tempo per il rugby. Al resto, per le trasferte in Irlanda, Romania, Francia, ci pensavano ferie e aspettative . Questo attivismo trasforma Lino, e di conseguenza Rho, in un crocevia del rugby italiano: il Comitato arbitri deve valutare degli esordienti? “Li mandava da me per un giudizio sul loro operato alle prese con una squadra che sapeva stare alle regole del gioco”, racconta l’interessato. Alla Nazionale serve un campo per un raduno? “Rho era vicino a Malpensa – ci spiega invece Carnovali -, c’era un albergo vicino al campo che fungeva da spogliatoio (noi non li avevamo) e grazie e Lino si allenava qui la Nazionale, tra i Settanta e gli Ottanta”.

Milano, tra Amatori e Asr

“In una trasferta all’est, con la giovanile, il medico era il GB Curioni, da poco presidente dell’Asr Milano – racconta Enzo Dornetti, ora consigliere federale lombardo ed ex pilone destro – e tra i due ci fu subito grande sintonia. Da noi è arrivato a metà anni Settanta, come ex allenatore della Nazionale giovanile. Noi eravamo allenati da Gigi Monza, Maffi cominciò come consulente ma l’anno successivo, dopo la promozione in Serie B, fu designato capo allenatore”.

Lino da allenatore si stava trasformando in un moderno manager, tanto da portarsi Franco Carnovali, reduce dalle esperienze a Grenoble, come allenatore della mischia. Con la sua esperienza e tenendo fede ai suoi princìpi, riuscì a formare un gruppo composto da imbianchini, mobilieri, muratori e universitari di belle speranze e a portarlo a giocarsi la poule scudetto nel 1982. Erano vent’anni, dall’Amatori nel 1962, che Milano non si affacciava ai piani alti della classifica.

 

“Il segreto di Maffi – spiega Dornetti – erano gli stratagemmi con cui cercava di sorprendere le squadre più blasonate. Per dirne una, con il Petrarca ci schierammo con i soli tre piloni nelle mischie, allora si poteva. Io retrocedevo a destra, la mischia girava e attaccavamo il lato chiuso con i cinque avanti lasciati fuori. Per 20 minuti fummo avanti noi, poi gli altri capirono il trucchetto ma tanto bastava. E poi era un gran motivatore. Se eri in panchina ti faceva discorsi efficaci, tipo “il tuo ruolo è decisivo per mettere pressione ai compagni” o addirittura “guarda che è molto più facile partire dal primo minuto, invece tu dovrai entrare e cambiare la partita”. E poi i celebri “pizzini”, consegne e consigli per noi giocatori, tutti raccolti in una paginetta scritta a mano. Ricordo una chiosa prima di una trasferta a Catania: “Non posso credere che abbiate bisogno di un “supporto vocale” esterno che vi indirizzi nelle scelte di gioco. Vi chiedo solo: quando avete fatto una scelta, portatela avanti con decisione senza tentennamenti”.

Qualche anno fa, durante il covid 

A tutte queste doti umane Maffi aggiungeva un grande fiuto per i talenti e una capacità fuori dal comune per attirare ottimi giocatori alla sua società: di Diego abbiamo già parlato ma nella sua U19 lanciò Mascioletti, al Calvisano consigliò il giovane Castrogiovanni, all’Asr arrivarono Berni e Gianni Amore, poi scudettati con l’Amatori.

Proprio con l’Amatori la carriera di Maffi ha una svolta professionale. Con Bottiglia prima e Manzoni poi completa il passaggio da allenatore, quindi uomo di campo, a dirigente, manager. Vive la stagione dei 4 scudetti da protagonista, vantando un rapporto confidenziale con “il dottore” (ovvero Silvio Berlusconi) e la stima di Fabio Capello. Con gli Ella, i Campese, i Gomez e quel Dominguez che aveva contribuito a scovare, il “Cardinale Richelieu” – un soprannome caro ai suoi detrattori – chiude in bellezza la sua attività nell’alto livello, continuando quella di “allenatore degli allenatori”, che è poi la definizione che più gli si addice e con cui ama, tutt’ora, definirsi.

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