Alla vigilia del 180° derby tra Petrarca e Rovigo riproponiamo qui questo articolo di Giorgio Sbrocco pubblicato a maggio del 2017 sul numero 114 di Allrugby. Campione d’Italia con la maglia del Petrarca nel 1977, poi tecnico e giornalista mai banale, Giorgio se n’è andato nel 2018 lasciandoci in eredità il ricordo di una preziosa amicizia. Chi non sa cosa significa (significava?) Petrarca-Rovigo troverà in queste parole un motivo di nostalgia e di sorriso.
È più facile dire che cosa non è più il derby fra Petrarca e Rovigo, piuttosto che tentare di capire cosa sia veramente e cosa ancora rappresenti per il nostro rugby e per le due città coinvolte. Oggi, 17 anni e spiccioli dall’alba dell’anno 2000, un attento osservatore direbbe, tanto per cominciare, che “dal momento che anche Rovigo ha la sua facoltà di giurisprudenza e la maggior parte dei giocatori in maglia rossoblù si esprime in un corretto italiano, quando non in inglese…”. Ma sarebbe un errore, anche discretamente grossolano, ridurre tutto a quel (benedetto e benvenuto!) livellamento sociale che ha fatto scomparire, dissolvendoli, i tratti meno nobili e volgari di quel classismo da campanile che per molti decenni è stato il tratto distintivo di appartenenze più esibite che vissute, più declamate che intimamente condivise. Ci furono anni in cui pareva avere un senso il passaggio (trasferimento essendo termine che poco si adatta alle caratteristiche di quell’epoca, che fu d’oro per il nostro rugby di club) di un giocatore da Rovigo a Padova. Non il suo opposto. Arturo Bergamasco, Simone Brevigliero, Dino De Anna, e poi Bimbati – Ravanelli, tralasciando Maci Battaglini il grande, e su su (nella linea del tempo) fino a Rocco Salvan di Lello che del Petrarca fu anche capitano, hanno passato l’Adige in direzione Padova. Solo molto recentemente (Tumiati, Damiano, fino a Chillon, via Parma-Zebre e Loro, direttamente dal vivaio) c’è chi l’ha fatto in senso inverso. No, non è la chiave della sociologia spicciola e pelosa (i padovani gran dottori e il Polesine che di grande ha solo le alluvioni e le nebbie) che ci aiuterà a disvelare e a cogliere la differenza, a comprendere o a rammentare ciò che ora non è. Ma i libri di storia, gli annali, le cronache del tempo che qualche oscuro e mal pagato scriba ha stilato da bordo campo, tutto annotando e niente lasciando all’immaginazione.
Alcune cartoline? Bene, Petrarca – Rovigo non è, e mai più sarà, come quella domenica (campionato 67-68) in cui “l’arbitro Tavelli (mica uno qualunque!) giunto al 16’ del secondo tempo, non ritenendosi più in grado di garantire l’incolumità dei giocatori sul terreno di gioco, fischia la fine della partita sul punteggio di 11-5 per il Rovigo”. La Fir ordinerà la ripetizione della partita, riprogrammandola a fine stagione. O come quando (campionato 64-65) “A 5’ dalla fine l’arbitro Salvagno di Trieste sospende la partita e si ritira negli spogliatoi perché minacciato dai giocatori del Rovigo. Di fatto: in fuga per salvare la pelle”. Dal bollettino di guerra della giornata: espulsi Lucchini, Olivieri, Casellato e Merlin (fallo su Chimenti) e Biscuola fuori in barella per una sospetta frattura alla caviglia. La Fir darà partita vinta al Petrarca e squalificherà 7 (sette!) giocatori del Rovigo. È giusto per dare il senso compiuto di quella che, soprattutto, fu rivalità vera, valga la vittoria petrarchina nel campionato 82-83 (7-13, punti padovani firmati Collodo, Lorigiola e Gardin), giunta “nove anni dopo l’ultimo successo in terra Polesana” e salutata con il tripudio e l’intima consapevolezza di aver compiuto una grande impresa, come si conviene agli eventi che fanno la storia. Insomma, per banale che possa apparire, Petrarca – Rovigo probabilmente non sarà più una corrida. E non perché, con le telecamere… O perché, essendo i giocatori dei professionisti… O ancora: dal momento che contando i padovani e i rodigini di nascita delle due contendenti non si arriverebbe al 50 per cento del totale. No. O meglio, non solo. A cambiare, da allora a oggi, è stato il peso specifico della posta in palio. Che non è più rappresentata da un (peraltro) millantato senso di proterva superiorità di un consorzio umano “di città” sull’altro ritenuto “di contado”. A cambiare è stata la grammatura del contendere sportivo.
Mischie sotto gli occhi dell’arbitro Andrea Piardi nel derby della scorsa primavera
Quando Luciano Ravagnani azzardava (fine stagione 76-77, quella dello scudetto padovano conquistato grazie a una forse-meta di Dino De Anna, sotto il diluvio assassino di Udine) dalle colonne del suo Gazzettino che “una vittoria del Petrarca sul Rovigo nel match di spareggio per lo scudetto avrebbe avuto la stessa percentuale di probabilità di una nevicata in pieno agosto” (da cui, sulle note del grande Memo Remigi: vedessi com’è strano vedere nevicare in agosto, nel Polesano…”, la mitica spedizione dei tifosi bianconeri vestiti da sciatori in piazza dei Signori della città delle rose il 15 agosto di quell’anno), assegnava all’evento il rango di grande e imperdibile appuntamento dello sport italiano. L’Appiani esaurito in ogni ordine di posti sette giorni prima di Udine per celebrare l’ultima di campionato e il possibile aggancio in vetta (21-9 per il Petrarca) è, in questo senso, l’immagine plastica di cosa era, in quegli anni, lo scudetto cucito su una maglia. Un valore che oggi è andato irrimediabilmente disperso. E a poco vale cercare colpe o colpevoli. La storia, quella vera, registra, non interpreta.
E nella galleria di ciò che non è e che mai più sarà, mettiamoci anche scampoli di storia decisamente minore: la carovana di tifosi che in bicicletta raggiunge lo stadio di Padova in occasione di un’edizione del derby datata anni ‘90, le bandiere rossoblù fatte a mano dalle madri o dalle mogli dei tifosi che tanto stupirono Gaetaniello, allora general manager Benetton, il maialino vivo lanciato (vi furono passi presso la Protezione animali) all’indirizzo della panchina di Vittorio Munari in un derby al Battaglini degli anni ’80, Memo Geremia che, a fine partita, chiede al responsabile dello spogliatoio di Rovigo un secchio in prestito, si sente rispondere che “no ghé seci pai padovani ki!” e il lunedì successivo fa recapitare all’onesto lavoratore e tifoso una batteria di contenitori nuovi di zecca, reperiti in Padova presso la premiata ditta Morassutti. La leggenda narra, infine, di un giocatore bianconero particolarmente incline ad avventure galanti fuori provincia, che nel buio di un’alcova improvvisata si sentì rivolgere la seguente accorata preghiera dalla gaudente compagna di ribaltabile, di fede dichiaratamente rossoblù: “Quando… quando è il momento, quando hai finito o stai per… per favore, potresti gridare Forza Rovigo?”. Anche di questo, purtroppo o per fortuna, si è persa traccia. Non la memoria.
Nella foto del titolo, una carica di Andrea Trotta del Petrarca, nella finale con il Rovigo del 2022 a Parma (Photo by Federugby/Federugby via Getty Images)