L’Argentina, vasta 9 volte l’Italia, circa 46 milioni di abitanti, colonizzata dalla Spagna che fece scempio degli indigeni guaranì, indipendente dal 1816 ma da sempre alla ricerca di un modello politico comune per le 23 attuali Province autonome, è un Paese unico. Lo scrittore Paz, a proposito dell’America Latina, scriveva che “… i messicani discendono dagli Aztechi, i peruviani dagli Incas, gli argentini dalle… navi”.
In effetti agli spagnoli colonizzatori che portarono il potere imperiale cattolico e la lingua, subito si unirono emigranti europei. Manuel Belgrano, “inventore” della bandiera biancoceleste argentina, era nato nel 1770 in Argentina, figlio di un italiano di Oneglia (Imperia). Spagnoli ed emigranti hanno combattuto per decenni prima in difesa del loro spazio, poi – i loro figli – per sconfiggere le mire di inglesi e francesi che puntavano sul Rio de la Plata e su Buenos Aires, allora modestissima città, ma considerata “La Puerta della Tierra”, perché punto di partenza per la conquista di distese sterminate, ricche di bestiame brado, e facile passaggio per arrivare all’argento della Bolivia, evitando il “giro” infinito attraverso Panama (senza il canale), Lima e il Perù.
Un ritratto di Manuel Belgrano
Sia perdonato l’excursus storico, comunque necessario per inquadrare il fenomeno – a suo modo – rugbistico argentino; la grande emigrazione europea, soprattutto italiana, esplosa dal 1870, ha determinato l’attuale situazione sociale: gli argentini sono di discendenza al 40 per cento italiana; al 25 per cento spagnola; il resto tedesca, gallese, ebraica, portoghese, francese, inglese. Da questa “miscela” nasce un carattere particolare, la capacità di fare gruppo, la competitività assoluta degli argentini in tutti gli sport di squadra (dal calcio al basket, dal rugby al volley, dall’hockey prato al polo, all’hockey rotelle). Merito anche della struttura sociale e ricreativa di tipo polisportivo dei club di stampo britannico, che hanno caratterizzato e caratterizzano la vita soprattutto nella sterminata Grande Buenos Aires (un terzo degli abitanti del Paese).
Noi e gli altri
Club come il Sic, il Casi, Cuba, Newman, Hindu, Alumni, Belgrano, Los Tilos, Pucarà ecc. – liberi ormai dagli originari comportamenti snob – sono nella storia del rugby. Fonte di tutto o quasi, ora con l’apporto delle province lontane, da Mendoza a Salta, a Santa Fè. Esempio i club di Cordoba, Tala e Tablada, rivali irriducibili sul modo di concepire la mischia.
Una miscela, quella argentina, che ha origini sociali (l’orgoglio criollo, cioè dei figli degli emigranti, e la conseguente “garra”, cioè lo spirito di combattimento, tenacia, coraggio). La scrittrice Giorgia Miazzo, esperta dei fenomeni dell’emigrazione, va oltre: riassume in una frase un modello di integrazione psicologica, interiore. Per dire “Noi e gli altri” gli abitanti dell’Argentina dicono “Nosotros y losotros”, stupenda assonanza di termini, “noi e gli altri” quasi la stessa parola. Un collante umano che sembra… rugby. Tutti per uno, uno per tutti, come i moschettieri di Dumas.
Il rugby che gli argentini giocano già dal 1873, quel tipo di rugby ancora molto calcio, con regole indefinite e squadre composte al momento, è quello che gli inglesi – sanate le guerre di conquista e ormai votati ai commerci – portano dapprima a Buenos Aires, poi nelle province. Rugby, e anche soccer (che diventerà quasi follia), al seguito dei mille ingegneri e delle migliaia di operai impegnati nella costruzione delle ferrovie che da Baires si irradiano verso l’interno: Rosario, Cordoba (già capitale dell’Argentina), Mendoza, Tucuman, Salta, Santa Fè…. In questi nomi sembra di rivivere “Dagli Appennini alle Ande” di De Amicis, ma anche da quel racconto mensile di “Cuore” si percepisce un Paese, un popolo in continuo fermento, come lo è anche ora negli anni Duemila, sempre con molta “garra” alla ricerca di un equilibrio, fra mille difficoltà, dopo aver superato il terribile buio della dittatura dei generali.
L’influsso britannico
Il rugby argentino si costituisce in federazione nel 1899, come “Rio de la Plata” RFU, ma è un rugby in gran parte britannico, come forse accadde anche a Genova prima della fondazione della società di calcio nel 1892-93. Anche a Genova dopo il 1880 gli inglesi dediti al commercio portuale (come a Le Havre, in Francia), e ancora a Livorno e Napoli in Italia, giocavano quel football che era forse anche rugby, in spazi angusti e campi pietrosi. Alla fine si decise di fondare il Genoa Cricket and Athletic Club. Tre anni più tardi Football prese il posto di Athletic, termine che forse conglobava anche un po’ di rugby. Così fu (ed è ancora) Genoa Cricket and Football Club, senza mai rugby nel nome societario. Chi si prenderà l’onere della ricerca storica a Genova? Il risultato potrebbe anticipare di una ventina di anni l’ufficialità della nascita del rugby, fissata in Italia a partire dal 1910, per derivazione francese.
La nazionale argentina che nel 1910 sfidò un British Combined Team
Non sarebbe scoperta da poco. L’Italia, infatti, rientrerebbe – così – tra i Paesi che hanno appreso i primi rudimenti del rugby dagli inglesi (come accadde – oltre all’Argentina alla Francia, a tutti i Dominions britannici, agli americani del Nord ecc.), anziché dai francesi, che sono stati maestri anche della Romania e un po’ di tutta l’Europa continentale. Forse non è un caso se i Paesi di “scuola” britannica continuano, in genere, a dettare legge.
La preponderanza di praticanti britannici a Buenos Aires e dintorni ritarda di qualche anno la costituzione di una “nazionale” argentina. La storia registra soltanto nel 1910 la prima partita contro un “Combinato Britannico” (sconfitta 28-3). Per trovare altri incontri scorrono 17 anni, ben dopo la I Guerra Mondiale. Nel 1927 – stando alla storia dei Pumas di Pablo Mamone, grande giornalista di discendenza calabrese – altri 4 incontri, sempre con “Combinati British”, sempre sconfitte nette (160 punti subiti, 3 segnati). Il mito dei Pumas è ancora lontanissimo.
Però l’Argentina si fa le ossa. Nel 1932 ospita gli Junior Springboks. Perde netto, ma impara e fino al 1938 vince tre volte contro il Cile. Nel frattempo l’Italia, fondata la federazione nel 1928, fino allo scoppio della II Guerra Mondiale gioca 16 partite, molte più dell’Argentina; fra queste il famoso torneo di Parigi del 1937 (la Francia è al bando del 5 Nazioni) dove supera il Belgio e la – allora forte – Germania. Fa 0-0 con la Romania.
I Pumas
L’Argentina riprende nel 1948 contro un combinato Oxford-Cambridge (quando le due università erano un riferimento notevole sia tecnico che agonistico). Continua a perdere, ma le vengono spalancate le porte al mondo: nel 1949 arriva la Francia di Jean Prat (0-5 e 3-12); nel 1952 l’Irlanda (due pareggi); nel 1954 ancora la Francia, poi ancora Oxf-Camb, Junior Springboks (1952) e tre incontri con la Francia nel 1960. Tutti ko, a volte pesanti, ma gli argentini combattono strenuamente, si meritano interesse. E finalmente vanno in viaggio, fuori casa, verso la nascita dei Pumas.
Accade nel 1965 (in Italia primo scudetto della Partenope). Il match d’esordio è in Rhodesia (nel 1973 lo sarà anche per l’Italia di Bollesan). Gli argentini vincono 17-12; indossando una maglia biancoceleste con l’immagine di un yaguaretè, un giaguaro. Il cronista di un settimanale degli agricoltori rhodesiani, “Weekly Farmer”, scambia il giaguaro per un puma, che è tutt’altra cosa, un grosso gatto rispetto a una piccola pantera maculata, e li battezza così. Comunque sia il battesimo viene accettato e nasce il mito, grazie anche al successo 11-6, pochi giorni dopo, contro gli Junior Springboks all’Ellis Park di Johannesburg.
La foto ufficiale della squadra argentina in tour in Rhodesia e Sudafrica nel 1965 (da sinistra, in alto: Guillermo Mc Cormick, Agustín Silveyra, Rodolfo Schmidt, Eduardo Scharenberg, Guillermo Illia, Walter Aniz, Luis García Yáñez, Ronaldo Foster, Ricardo Handley. Nella file di mezzo: Enrico Neri, Juan Francisco Benzi, Héctor Goti, Arturo Rodríguez Jurado, Manuel María Beccar Varela, Aitor Otaño (capitano), Héctor Silva, José Luis Imhoff, Roberto Cazenave, Raúl Loyola. In basso: Eduardo Poggi, Jorge Dartiguelongue, Luis Mariano Gradín, Adolfo Marcelo Etchegaray, Angel Guastella (coach), Emilio Jutard (manager), Alberto Camardón (main coach), Eduardo España, Marcelo Pascual, Nicanor González del Solar.
Il Puma ora corre. Nei tre anni successivi supera il Galles (9-5), la Scozia (20-3), l’Irlanda (8-3 e 6-3). L’Italia del tempo, per calare un confronto, gioca invece, seppur vincente, con Germania, Belgio, Jugoslavia, Bulgaria nella poule B della Coppa Fira.
La bajadita
In quel tempo l’Argentina, tramite il SIC, uno dei club bonaerensi di riferimento, mette a punto la “bajadita”, la speciale spinta in mischia ideata da Francisco “Catamarca” Ocampo e da “Veco” Villlegas (i francesi diranno che il merito è del tecnico sudafricano Izaak Van Heerden). Niente tallonaggio, tutti in spinta: bisogna mettere in difficoltà i sudafricani, altro che Van Heerden a fare da quinta colonna. Nel 1974 ne fa le spese la Francia che pure vince a Buenos Aires 20-15 e 31-27, ma subisce umilianti “carrettini” che fanno dire al pilone basco Iracabal “mai visto nulla di simile in 15 anni di Nazionale”. Le nuove regole hanno in pratica cancellato la “bajadita” e l’Argentina – pur forte nel pack – non è più un riferimento
Negli anni Settanta l’Argentina viaggia molto, colleziona più sconfitte che vittorie (è nella storia dei Pumas, che comunque rendono sempre dura la vita a tutti); ospita gli All Blacks (1976), va in Francia e finalmente le si aprono le porte di Twickenham… e del “Battaglini”. Sì, nel viaggio europeo dell’ottobre 1978 dopo l’Inghilterra è prevista l’Italia.
La meta in tuffo di Marcelo Pascual contro i Junior Springboks, a giugno 1965.
A Twickenham è un clamoroso 13-13 con “sua maestà della rosa rossa”. Da non credere. L’Italia esce da un periodo nero, ha perso in un anno da Marocco e Polonia, con un 69-0 dalla Romania dopo che Roy Bish se n’è andato. Presidente Fir è Aldo Invernici, è appena arrivato Pierre Villepreux. È Ambrogio Bona, che non ne voleva più sapere di Nazionale, che combina la cosa e fa il capitano. Contro la “bajadita” di Cerioni-Cubelli-Ventura, oppone Bona-Robazza-Altigieri.
A Rovigo, nel 1978, la prima sfida con l’Italia
A Rovigo finisce 19-6 per gli Azzurri, con mete di Ghizzoni e Rino Francescato e 11 punti al piede di Loredano Zuin (2 penalty, un drop, una trasformazione), figlio del custode dello stadio Beppe, già pilone del Rovigo. Zuin fa meglio del grande Hugo Porta (un penalty, un drop). Gli argentini restano di sasso, pare che tentino di non riconoscere il test match, ma alla fine lo mettono nel loro curriculum. Dei 17 Pumas scesi in campo, 11 hanno cognome italiano.
Gli artefici della grande vittoria del primo mezzo secolo azzurro meritano un ricordo: Caligiuri (Roma) Mascioletti (L’Aquila), Nello Francescato, Rino Francescato (Treviso), Ghizzoni (L’Aquila), Zuin, A. Visentin, De Anna (Rovigo), Blessano (Treviso), Mariani (L’Aquila), Fedrigo (Petrarca), Di Carlo (L’Aquila), Bona (Roma), Robazza (Treviso), Altigieri (Roma). N. Zanella (Rovigo) è entrato per Blessano dopo 45’. Un ricordo per chi quel rugby non ha vissuto e per le nuove generazioni che ancora pensano che prima del Sei Nazioni fosse stato il deserto.
Foto del gruppo azzurro dopo il successo a Rovigo contro l’Argentina nel 1978
Potrebbe finire qui? Dove sta la differenza attuale tra Pumas e Azzurri? Che i primi hanno continuato a crescere, aprendo la gelosa Buenos Aires, dai club molto chic di tipo inglese, al territorio sterminato, alle enclave ovali di Cordoba, Mendoza, Tucuman, Salta, Santa Fè; a crescere permettendo a centinaia di giocatori esperienze in Europa e nel mondo; sempre fidando su tecnici di qualità, specializzandosi nel gioco di mischia, andando all’estero (sovente per necessità contingenti di un Paese ricchissimo ma sempre sull’orlo della povertà e dei governi autoritari), Francia e Inghilterra in particolare. A cercare un rugby competitivo di alto contenuto, poi tornano e si preparano (sanno farlo benissimo) come se non si fossero mai persi di vista. Nell’ultimo Mondiale tutti i Pumas venivano da club stranieri europei o giapponesi.
Equiparati e oriundi
Ovviamente vengono da decenni anche in Italia; anni fa con i migliori, oggi con le seconde scelte, tranne eccezioni. Il primo fu certo Acquaroli, ingaggiato dal Bologna 1971-72, quando si aprirono le frontiere per rivitalizzare il nostro campionato. Acquaroli subito fermato perché si seppe squalificato a vita dall’UAR argentina. Il primo oriundo in azzurro è stato Rodolfo Ambrosio, apertura-centro, titolare alla prima World Cup. Il secondo “Tati” Milano, un solo match in azzurro, del San Donà e del Mediolanum, uno dei più grandi Pumas della storia argentina. Il terzo Diego Dominguez. Ma siamo già nel 1991 e gli argentini, anche Pumas quali Allen, Dengra, Llanes, Turnes, Gomez, Todeschini, ormai sono di casa nel nostro rugby.
Gli argentini un po’ quali oriundi, un po’ equiparati, da oltre 30 anni sono stati di sostegno alla Nazionale (Parisse, Canale, Castrogiovanni, Nieto, Dellapé, Gerosa, Scaglia, Canavosio, Garcia, Orquera, Pez tra le decine passati in azzurro) e di sostegno anche al nostro sempre indigente campionato. Cosa sarebbe, oggi, la nostra Élite a 9 squadre senza gli argentini?
Juan Martin Gonzalez placcato da Aaron Smith nel match tra Argentina e Nuova Zelanda ai Mondiali del 2023. (Photo by Michael Steele – World Rugby/World Rugby via Getty Images)
Intanto le Nazionali continuano su piani diversi. Per noi il 6 Nazioni dal 2000; per i Pumas anni ormai dei grandi confronti down under, contro Nuova Zelanda, Sudafrica e Australia. Vincono poco ma si comportano veramente da Pumas. L’Italia non batte i Pumas da 16 anni (Argentina-Italia 12-13 nel l 2008 a Cordoba, Ct Mallett). Non c’è più confronto. Eppure vale ancora “nosotros y losotros”. Dovremmo lottare alla pari.
Ma la domanda resta sempre. Siamo quasi uguali in tutto, perché tanto diversi nel rugby? Una risposta me la suggerisce Flament, seconda linea della Francia, che ha passato alcuni anni in Argentina. Dice: “Laggiù ho imparato a scaricare la tensione, a giocare fra amici che si sostengono, a pensare collettivamente, a tenere allegro il cuore. Così facendo il rugby viene meglio”.
Nella foto del titolo, durante l’ultima Coppa del Mondo in Francia (Photo by Michael Steele – World Rugby/World Rugby via Getty Images)