Prima o poi capiterà, come nella rovina di casa Usher di Edgar Allan Poe. Tutto crollerà e si ricomincerà daccapo. Speriamo.
L’ultima riguarda i British & Irish Lions che nel 2029, anno della spedizione in Nuova Zelanda, potrebbero calcare, come Tom Jones e Dean Martin, il palcoscenico di Las Vegas dando inizio in Nevada alle sfide con gli All Blacks.
La Coppa del Mondo 2031 in Usa ha bisogno di essere lanciata e se nel 2030 le città della West Coast (Los Angeles, San Francisco, San Diego) ospiteranno, come sontuoso antipasto, le finali della Nations Cup ormai in fase di avanzata gestazione, l’aperitivo ha buone chances di essere servito nella città del gioco.
Il rugby vive dentro una furia, una sete di guadagno, un proliferare di date, di impegni che nulla hanno a che fare con il suo passato, anche quello recente. Con 100 milioni l’Allianz mette le sue etichette su Twickenham (ma non sulla sua storia e gloria…), il Qatar ne aveva offerti 800 per diventare sede fissa della Nations (avrà, con più modica spesa, l’edizione 2028), i tentativi di inoculare la “malattia” del rugby in Usa si fanno sempre più insistenti e pervasivi e anche i Lions possono ruggire sulla Strip. Senza dimenticare il Giappone che elargisce ricchi stipendi e l’Arabia che prima o poi si farà viva. Cosa costa al Principe Reggente costruire uno stadio più grande di Twickenham, magari in marmo di Carrara?
Tutto quel che aveva un sapore rituale o un gusto semplice, gradevole, viene spazzato via. “Non è un rugby per vecchi, ti devi svegliare”, interviene quello che si tiene al passo con i tempi e che, quelli come me, individuano come una specie di traditore. Per citare Stefan Zweig, il mondo di ieri poteva essere drammatico, ostile, ma questo è lontano, sempre più estraneo. E poi, dove finiscono tutti questi soldi? Se non rischiassi una “concussion” darei qualche testata nel muro.