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Un gioco di squadra che non fa squadra. È questa la sintesi del rugby italiano, politicamente (cioè del governare), fra i primi del mondo, praticamente di seconda fascia per valore sul campo? E quali sono i motivi storici di questa ormai chiara incapacità di agglutinare quanto meno il potenziale, se non – e sarebbe meglio – di “fare gruppo”? Penso che la risposta sia molto complessa, dato che implica la storia sportiva (quindi culturale) di un Paese molto complicato, anche geograficamente, come è il nostro.

È necessario essere di età ampiamente tra gli “anta” per ricordare che il problema, cioè ottenere risultati pari alle aspettative, non è nuovo. Negli Anni Sessanta del secolo scorso la sintesi di uno studioso della questione (Baccarini, se non ricordo male), già vecchia di anni, venne etichettata come “slegame endogeno”. Cioè un malessere (o malattia?) di origine interna, senza motivazioni evidenti. Insomma, in quel tempo, il rugby italiano, affetto da “slegame endogeno”, combatteva contro sé stesso senza sapere perché, per il solo fatto di esistere.

Una litigiosità diffusa, città vs provincia, club di vasti agglomerati urbani vs movimenti locali, nord vs sud vs centro. Lo sport del rugby dapprima tollerato nel movimento sportivo italiano, poi enfatizzato dallo sport fascista pur tra i distinguo di “pallaovale” anziché “rugby” (anzi “rugbi”), trovatosi libero nel Dopoguerra si espresse – forse involontariamente – nell’immagine di situazioni locali. Sparito del tutto da città quasi obbligate all’attività dal Regime mussoliniano, cambiò connotati in altre. Senza essere mai stato sport nazionale (l’attuale slogan “rugby, passione italiana”, appare ancora una clamorosa forzatura) diventò di volta in volta attività sportiva universitaria o borghese (le grandi città italiane e Parma), cittadina o periferica, dopolavoristica o operaia (si pensi a Rovigo, Treviso, L’Aquila, Livorno), addirittura “di quartiere”, come definì Roy Bish il rugby romano degli Anni Settanta. Mai decisamente nazionale. Ancora oggi, secondo la recente ricerca del “Sole24Ore”, 38 province italiane risultano non rilevabili in fatto di attività rugbistica: 11 al Nord, 10 al Centro, 17 al Sud della penisola (il volley manca in 22 province, il basket in 11).

Nel 1977 quando vide la luce la prima versione di “All Rugby” (a sinistra la copertina di un numero del 1982) un collaboratore – Pietro Vason – ebbe la felice intuizione di intitolare una rubrica “Arcipelago Rugby”. Occupandosi di diffusione della rivista si era trovato a navigare fra decine di isole rugbistiche, dai marcati segni distintivi e operativi. Appunto un arcipelago, praticamente senza collegamenti. Sul piano interno, in qualche modo corrispondeva a una “forza”, alimentava la rivalità, il cosiddetto campanile, il moltiplicarsi dei derby, il dominio di volta in volta di club fortunatamente incentivati da sponsor di medio-alto livello. Anche se con la Nazionale erano problemi evidenti (forse si trattava solo di organizzazione e di entrare nel “giro” degli anglosassoni – allora chiusi nelle loro torri d’avorio), la base operativa appariva ricca di futuro: “Rugby, lo sport degli anni ottanta” propagandava la Fir diretta da Aldo Invernici, un bresciano di solida cultura sportiva.

L’Arcipelago comunque non mutava aspetto. Anche se il 70% dell’attività di un certo livello si concentrava in un raggio di 150 km da Verona (tra il 1970 e il 1990 solo due scudetti sono finiti fuori dal Veneto, a Brescia e L’Aquila), il “peso” dell’Abruzzo, di Roma e del “palazzo”, della storica presenza toscana, della Sicilia, in conclusione caratterizzavano modi diversi di vivere il rugby, senza la possibilità di efficaci saldature. Sussistevano rugby differenti, senza coesione tecnica. I molti tecnici stranieri si trovarono confusi e scelsero la strada più semplice: ottenere risultati, non importava l’obbiettivo tecnico. Semmai qualche problema emergeva, veniva risolto dal campione straniero che calava in Italia durante la “off season” al suo Paese.

Fra i primi a porsi il problema della “saldatura”, dapprima organizzativa in un’ottica di tecnica di base, fu Giancarlo Checchinato, presidente del Rovigo. Politicamente ben sostenuto in ambito romano (nel senso di Parlamento) presentò la sua candidatura alla successione di Invernici. Nel programma di Checchinato traspariva l’unione di intenti e di lavoro nell’arcipelago. Tra l’altro l’idea di portare il rugby nei grandi complessi industriali, confronto fra squadre aziendali che significava tra l’altro stimolo alle sponsorizzazioni.

La “rivolta” del palazzo romano fu immediata: accusato di aver tramato per il tesseramento col Rovigo degli Azzurri Claudio Tinari e Gianluca Limone, in concorso con il presidente del Petrarca Mimmo Sturaro e del Cus Roma Alberto Gualtieri, Checchinato fu squalificato così come gli altri due. Per le elezioni raccolse il testimone Arrigo Manavello, del Treviso, ma vinse Maurizio Mondelli (a destra), romano, che restò presidente per 12 anni. Era il 1984.

Dodici anni. Quelli delle prime tre edizioni della World Cup, dell’Italia nel direttivo dell’International Board, della invasione di stranieri nei nostri campionati, ma anche di una Nazionale organizzata attorno alle cosiddette “borse di studio” (idea Dondi), il tempo di Bertrand Fourcade e Georges Coste. Non tutto da buttare, certo, ma ancora tanto “slegame”. Le isole dell’arcipelago sempre più chiuse. Gli anni seguenti sono cronaca.

Quel che resta, senza possibilità di conquista, di collegamenti, nonostante il Sei Nazioni, il Pro 14, la Nazionale femminile, l’organizzazione ambiziosa, è l’arcipelago attuale degli obbiettivi. Ancora più confuso per l’ormai evidente mescolarsi di “culture” rugbistiche che si concentrano nelle Accademie nazionali, alle quali accedono elementi di storie e prime esperienze molto diverse, di esempi e vissuto emotivo totalmente differenti.

Non potrò mai dimenticare che fra i motivi del fallimento, dopo una breve esperienza, dell’Accademia di Mogliano Veneto negli Anni Settanta, fu una disputa sulla “pasta e fagioli” fra gli allievi di Lollo Levorato. Un piatto amato dai veneti, aborrito dai ragazzi del sud. Imparare rugby non serviva a superare le preferenze alimentari.

Certo, di anni ne sono passati; di cose ne sono cambiate; i nostri ragazzi sono diversi, ma le incapacità di collegare le potenzialità nazionali (non ricchissime e destinate a immiserirsi dai problemi demografici di un Paese vecchio) a un unico obbiettivo che faccia dell’Italia un movimento rugbisticamente competitivo, restano tutte.

Forse non è soltanto un problema di preparazione e potenziamento muscolare (i “mostri” sappiamo costruirli anche noi), né totalmente di tecnica individuale, peraltro molto trascurata e male insegnata (e si vede quando i giovani “fenomeni” approdano alla Nazionale); probabilmente è ancora – e sempre – quello “slegame endogeno”, quella malattia interna di cui il rugby italiano soffre, per la sola ragione che esiste. Se così è, non c’è O’Shea, o Howley, o Smith che possa rimediare. L’arcipelago ha bisogno di ponti di collegamento.

Nella foto del titolo (archivio Beppe Vigasio): la meta di Marco Bollesan nel match del 1975 che diede lo scudetto al Brescia contro L’Aquila. 

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