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I Pumas fanno la storia battendo i campioni del mondo del Sudafrica. Ripubblichiamo qui l’articolo scritto da Valerio Vecchiarelli nel numero numero 153 di Allrugby (dicembre 2020), quando l’Argentina battè per la prima volta gli All Blacks. Un breve affresco dei grandi successi sportivi di un paese che ha dato al mondo campioni inimitabili in tante diverse discipline. 

Hanno celebrato la fine di una delle “ultime utopie” dello sport argentino, hanno scavato nei meandri dell’antropologia, nel senso di appartenenza di un popolo edificato su un melting pot di cognomi internazionali, nella storia di uno sport che si sono cuciti addosso, dentro a club dal fascino anglosassone, nell’affronto dell’inno nazionale sbagliato dal cantante di giornata, negli occhi di ghiaccio del capitano, nel suo televisivo appeal sfoggiato con l’arbitro nella difesa dell’onore di un popolo. Hanno vinto da sfavoriti, battuto per la prima volta (in 30 sfide dicono le statistiche ufficiali, 34 dicono loro) gli All Blacks, cancellato per sempre il famoso pareggio (21-21) del Ferrocarril, anno 1985, Hugo Porta e i suoi drop, uno stadio che solo a nominarlo sa di ruggine e ossa frantumate, Hugo Porta per sempre, una carriera di ambasciatore e ministro costruita a forza di calci.

I Pumas hanno fatto la storia, la loro storia, chiudendo il cerchio di uno Slam che sembrava impossibile completare, perché adesso non c’è potenza ovale che almeno una volta non abbia subito il graffio della belva. Lacrime a fiumi e dedizione, fantasia latina e abnegazione, ma soprattutto competenza rugbistica, perché nulla si inventa appellandosi al cuore, loro che nella difficoltà hanno sempre costruito giocatori eccezionali, fondato una scuola parallela i cui paradigmi mai hanno deviato dall’evoluzione del gioco, sono passati dalla “bajadita”, orgoglio di una squadra antica, al gioco moderno, navigando tra le difficoltà economiche, la razzia dei talenti (e l’Italia ne sa qualcosa), i vuoti di potere, la lontananza geografica dal cuore pulsante del mondo ovale.

Hanno vinto e pianto lacrime di gioia, con Mario Ledesma, 84 volte tallonatore con indosso la camiseta blanca y celeste (“albiceleste” è solo quella di calcio), che non ha retto all’emozione, ha girato le spalle al prato del Bankwest Stadium di Parramatta e abbassato il testone, perché aveva capito che quello non sarebbe mai più stato un giorno come gli altri. Nel celebrare i suoi ha percorso all’indietro 13 mesi di inferno, i 12 positivi al Covid-19 nel gruppo, gli allenamenti individuali a casa, l’obbligo di emigrare in Uruguay pur di poter lavorare con la squadra, l’aiuto fraterno di Michael Cheika costretto a parlare in un microfono dentro a un gabbiotto asettico per motivare gli amici sudamericani, i 4 mesi di isolamento, la bolla australiana, l’incognita di giocare in queste condizioni una partita impossibile, contro avversari invincibili. Fine dell’ultima utopia dello sport argentino: battere sul campo di rugby la Nuova Zelanda.

Adesso è semplice analizzare la perfezione balistica di Sanchez (25 punti su 25), la cattiveria muscolare di Kramer, la leadership di Matera, il pianto liberatorio di Montoya, i suoi placcaggi efficaci, il ritmo educato di Cubelli, l’aggressione sui punti di incontro, la difesa un muro invalicabile (Kramer: 28 placcaggi!), il gioco al piede impeccabile, gli All Blacks morbidi e spaesati. Ma non è scritto tutto nel cuore e orgoglio di cui gli argentini sono maestri, ma nella sapienza rugbistica che hanno sempre coltivato con cura. Hanno vinto perché giocano un rugby ruvido, spigoloso, tutto loro. Ma evoluto.

L’Unión Argentina de Rugby un’ora prima della notte di Parramatta aveva diffuso sui social un video motivazionale che in un amen aveva fatto il pieno di like e followers: si susseguivano le immagini girate durante l’isolamento in casa dei Pumas, con Tomas Cubelli che passava palloni a un bersaglio appeso al muro del garage, Santiago Socino che provava le touche con il papà appollaiato sul tetto, Nicolás Sanchez che correva per lunghi 21 minuti nel corridoio del suo loft parigino, Julian Montoya che lanciava palloni a un poster del soggiorno: “Non vediamo le nostre famiglie da agosto, ci siamo sottoposti a 16 tamponi prima di poter tornare su un campo di allenamento. Adesso c’è “la Partita, oggi è il giorno”, recitava l’audio della clip. Sarà, ma se le motivazioni servono, gli argentini non se le erano risparmiate.

Lo stupore e le lacrime a fiumi sul campo, la consapevolezza di essere diventati parte della storia di un Paese in perenne difficoltà, le celebrazioni a getto continuo. Sono andati a scavare negli almanacchi dello sport di casa, hanno messo in fila le loro leggende Roberto De Vicenzo (golf), Delfo Cabrera (oro olimpico maratona), Lionel Messi, Paula Pareto (oro olimpico judo), Luciana Aymar (hockey su prato), Hugo Conte (pallavolo), Santiago Lange (oro olimpico nella vela), Juan Curuchet (oro olimpico ciclismo su pista), Carlos Reutemann (automobilismo), Gabriela Sabatini (tennis), Jeanette Campbell (prima donna argentina a partecipare alle Olimpiadi, nuoto 1936), Alberto Demiddi (canottaggio), Adolfo Cambiaso (polo) e hanno scoperto di aver affiancato Francia e Australia in un singolare Grande Slam: sono gli unici paesi ad aver battuto gli imbattibili su un campo di gioco. Il Brasile nel calcio, il Dream Team Usa nel basket, gli All Blacks nel rugby. (Per la cronaca, la nazionale australiana di calcio batté quella carioca nella Confederations Cup del 2001). Con il Brasile, l’Argentina la questione l’aveva risolta già la prima volta in cui i destini delle due squadre si erano incrociati (1914), anche se poi lo slalom di Maradona per la Coppa del Mondo 1986 e la vittoria sui verdeoro di Italia ’90 erano arrivate a confermare un episodio lontano. Nel basket la generazione dorata di Ginobili e Scola, l’argento al Mondiale 2002 e l’oro all’Olimpiade di Atene, i mostri Nba cancellati sul campo, irripetibile. Adesso gli All Blacks, cerchio chiuso da chi sa fare miracoli con una camiseta blanca y celeste addosso. Involvidable!

Hanno ricordato il pugno del ko di Monzon a Benvenuti di 50 anni e una settimana esatta prima (7 novembre 1970), i titoli mondiali di Fangio, gli slam di Vilas, la fine di un’altra utopia con la vittoria della Coppa Davis in Croazia nel 2016 quando lo sport individuale per eccellenza si fece squadra intorno al talento sfortunato di Juan Manuel Delpotro, Carlos Bilardo e Alfredo Di Stefano.

In mezzo a dettare il ritmo del ricordo i Pumas, il terzo posto alla Coppa del Mondo 2007, il fallimento giapponese, la razzia di Parramatta punto di partenza di un percorso che deve approdare a Francia 2023: “Perché accade sempre di perdere con il numero 40 al mondo dopo aver battuto Nadal… Pumas, adesso voi non potete rovinare un giorno inolvidable!”. Indimenticabile! ha scritto a tutta pagina Il Clarin di Buenos Aires. Inolvidable! anche per il rugby tutto, le sue gerarchie ingessate, i suoi riti sempre uguali, gli All Blacks e gli altri, il ranking immobile. Qualcosa si muove, una ventata di orgoglio ha allietato il mondo sopito dall’odioso virus. Orgoglio e rugby di altissima qualità. Los Pumas hanno dimostrato che anche su un campo da rugby le utopie possono essere guardate negli occhi. E cancellate.

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