Questa intervista di Norberto “Cacho” Mastrocola a Julio Velasco venne pubblicata nel numero 3 di Allrugby (marzo 2007).
Sono trascorsi più di diciassette anni, ma i temi toccati con lucidità dal CT della nazionale femminile di volley, medaglia d’oro a Parigi, sono tuttora di straordinaria attualità
La Plata città delle diagonali, città universitaria, città dello sport, città capace di offrire anche il rugby a Julio Velasco giovane studente bonaerense con la passione della pallavolo.
Ne parliamo mentre mangiamo insieme in un ristorante argentino, nos dos gauchos arrivati in Italia nel 1983 seguendo percorsi diversi. Lui allenatore di pallavolo che sognava Parigi, dopo aver dovuto restare nell’ombra in patria durante gli anni terribili della dittatura militare, io giovane rugbista in cerca di avventura in Europa, a Bordeaux, poi a Parigi, infine Brescia.
Julio sei diventato famoso con il volley ma nel tuo background c’è anche il rugby. Raccontaci di questa tua questa passione meno conosciuta.
“Tu sai meglio di me cosa significa il rugby a Buenos Aires. Io come tanti bambini in Argentina sognavo soprattutto il calcio, ma ad un certo punto mi sono avvicinato al rugby perché mi attirava il suo fascino di sport di combattimento, mi ricordo gli allenamenti di sera, il freddo, il fango, anche le difficoltà per entrare a fare parte di un gruppo già compatto al momento del mio arrivo, poiché eravamo quasi a metà della stagione. Ovviamente, poi, è stata la pallavolo a prendermi il cuore però, in quel breve periodo, il rugby mi aveva colpito, infatti, qualche anno dopo mi ritrovo a giocare con i miei compagni del Liceo Nazionale de La Plata un torneo a sette organizzato all’interno dell’istituto: mi schierano come wing, ala, (in argentina usiamo la terminologia inglese) e faccio un tackle frances (una “francesina” ndr) in palomita (in tuffo) con il quale rimedio una lesione alla spalla. Finisce che la cosa non viene molto apprezzata dall’allenatore di volley perché per l’infortunio devo rinunciare alle prime partite del torneo nazionale di pallavolo delle Scuole Medie. Meno male che sono rientrato per la fase conclusiva del torneo. Con il rugby ho avuto sempre un rapporto particolare. Quando militavo nel Club Universitario, d’estate, vedevo sempre i rugbisti di La Plata che si tenevano in forma giocando a volley. Con loro c’era una ragazza che mi piaceva molto, una certa Marilena. Allora io, attraverso un buco nella rete che separava i due club, passavo dell’altra parte e mi mescolavo ai rugbisti per cercare di fare colpo su di lei. Ho fatto amicizia con tanti ma credo che quella Marilena non si sia mai accorta di me e io non ho mai avuto il coraggio di dirle niente! Il rugby è stato sempre uno sport con molto fascino in Argentina, noi del River Plate giocavamo a volley con i calzoncini da rugby, pesanti, con le tasche, e ci sentivamo molto ‘in’.”
Poi tu sei stato protagonista del boom della pallavolo in Italia cosa servirebbe al rugby per fare altrettanto indipendentemente delle fiammate del Sei Nazioni?
“Alla mamma italiana apprensiva, che ha timore della violenza del rugby, bisogna far capire che gli infortuni possono sempre accadere, come accadono negli altri sport, come avvengono tra i muri domestici, ma la realtà importante è quella di uno sport che contiene valori fondamentali che potranno fare bene all’adulto di domani. I ragazzi possiedono tanta aggressività, il fatto di poterla canalizzare in questo sport che ha delle regole precise da rispettare, sicuramente potrebbe contribuire a mandare un messaggio positivo a quella frazione degli ultras che si picchiano per la minima stupidaggine.”
Funzionerà?
“Io sono convinto che il rugby tra qualche anno si affermerà definitivamente anche in Italia, come è successo in altre nazioni, compresa la nostra Argentina. Sicuramente non accadrà subito, come pretendete voi rugbisti. Ma ti dico di più, credo che tocchi alla politica sportiva incentivare la pratica di un gioco così, uno sport di contatto che non necessariamente deve piacere a tutti, ma nel cui valore aggiunto credo profondamente. Penso alla sua importanza per farci recuperare quelle sensazioni di coraggio, di dolore, di sacrificio fisico, che una volta erano patrimonio dei campesinos, i contadini, e che si perdono nelle città, nella vita urbana di ogni giorno. Vedi, oltre alla pittura, la scultura, la musica io credo che in un’ottica culturale la gente dovrebbe imparare ad apprezzare il balletto, il rugby, viceversa, è necessario per completare il patrimonio sportivo italiano.”
Allora, quale è la chiave per svilupparlo completamente in Italia?
“Produrre buoni giocatori passando attraverso la formazione di tanti, tanti ragazzi senza porsi limiti nell’accoglierli, vanno bene i bassi, i lenti, i grassi, la selezione verrà dopo in maniera fisiologica, la cosa importante è che quelli che non saranno rugbisti di elite diventeranno magari imprenditori, oppure professionisti, politici, saranno coloro, cioè, che domani potranno aiutare attraverso una sponsorizzazione o un patrocinio il loro sport, quello che hanno giocato da piccoli o da giovani. Questo per me è il primo passo da fare, aprire le porte a tutti.”
E per quanto riguarda la formazione specifica?
“L’italiano è un eccellente sportivo, intelligente, molto tattico, forse troppo. In Brasile si discute di futbol parlando di chi è il giocatore migliore o peggiore, in Italia si parla di moduli tattici. Secondo me la formazione deve occuparsi sicuramente dei concetti di tattica globale, ma senza trascurare l’individuo, curando la sua tecnica, la sua preparazione fisica, la sua tattica individuale. Per me un percorso formativo corretto dovrebbe elaborare una sintesi di individualità e tattica.”
Qual è stato il segreto dell’affermazione della pallavolo in Italia?
“Noi abbiamo avuto i risultati, quelli sono stati fondamentali. Ma io sono orgoglioso di una squadra che è stata grande anche nella sconfitta. Abbiamo saputo perdere. Oggi vedo anche nella pallavolo troppa attenzione ai “prototipi”, atleti perfetti studiati a tavolino. Così non attiri i ragazzi, la strada è un’altra: aprirsi a tutti e poi lavorare bene sui grandi numeri”.
La tua immagine del rugby.
“Quella che mi ha colpito di più? Agustin Pichot che, nel momento in cui l’arbitro fischia la fine del match di Twickenham, quello che l’Argentina ha vinto a novembre (2006, ndr) in casa dell’Inghilterra, dice a tutti ‘escuchen eschucen, ascoltatemi, ascoltatemi, fate silenzio, concentratevi perché un momento così dobbiamo fare in modo di tenercelo ben stretto per sempre, non sprechiamolo’. Quella è la mia idea di sport, non sprecare le sensazioni”.
Tutte le foto sono della FIPAV