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Bertrand Fourcade, francese dei Pirenei, per 29 volte responsabile della nazionale azzurra, è morto a 81 anni, in agosto, un mese che in Francia – Olimpiadi a parte – è dedicato dai club alla nascita della stagione agonistica. Lui, ormai “en retraite”, pensionato, del ministero dell’istruzione, si compiaceva con i bilanci dei suoi quasi 70 anni di rugby: da “minime”, da giocatore fatto – anche con il clamoroso Lourdes con il quale vinse nel 1968 un Bouclier de Brennus – da tecnico  in Francia e anche in Italia, da Nord a Sud. La sua scheda italiana, zeppa di incarichi e di società, non potrà mai definire completamente l’importanza di Fourcade nel nostro rugby.

Di lui ho seguito (in quel tempo la stampa poteva) praticamente passo passo i suoi 4 anni alla guida degli azzurri. Arrivato nell’estate 1989,  Mondelli presidente Fir, ha avuto un impatto che aggancia quello di Quesada: un rugby nostro. Ovviamente l’esperienza era quella dell’allora magico ambiente del Lourdes dove si era imposto al cospetto di “gente” del tipo di Crauste, Gachassin, Campaes, Hauser. Tra gli ultimi bagliori di una squadra che ha fatto la storia del rugby francese, ci era arrivato – ruolo estremo – con la cocciuta determinazione di un pirenaico.

Una sera, era il febbraio 1992, arrivai a Tarbes dove l’Italia doveva giocare con gli  Espoirs francesi, molto tardi dopo cena, proveniente dalla Spagna. I ragazzi si erano già ritirati, Fourcade mi guidò in una brasserie e in un paio di locali (mai un conto,” Au revoir Mitou”). A un tratto disse: “Vuoi vedere dove sono nato?”. Pochi km, ecco Laloubère. Piccola borgata attorno a un grande ippodromo. Un polmone per i cavalli, famosi nel mondo, che si allevano negli “haras” di Tarbes. “Ecco, vedi, il mio futuro qui sarebbe stato il fantino. Ma ero troppo fuori misura e peso, con il rugby c’era qualche possibilità. Ho provato, mi è andata bene”.

Fourcade non era un tipo semplice. Se era convinto di avere ragione non temeva lo scontro. Come ai mondiali 1991. Dopo il match di Otley contro gli USA, se la prese con l’arbitro Doyle, un big irlandese, a rischio della rottura delle relazioni per l’Italia di quei tempi.

La vittoria sugli Usa è ricordata per la gran meta di Ivan Francescato. Ivan era arrivato in Nazionale un anno prima. Giocava in B con il Tarvisium, ma faceva faville comunque ignorato. Un po’ forse anche per il “tamburo” della stampa veneta, Ivan arrivò in azzurro. Esordì contro la Romania del tempo (29-21) in un match eliminatorio a Padova e conquistò il n. 9. Merita un cenno la formazione di Padova: Troiani, Venturi, Bordon, Barba, Brunello (1 meta), Bonomi, Ivan (1 meta), Zanon, Giovanelli, Saetti, Croci, Favaro, Properzi (Grespan), Pivetta, Max Cuttitta. Quanti se ne troveranno nel periodo d’oro di Coste? Con Vaccari e Dominguez in aggiunta.

Fourcade è stato 4 anni con gli azzurri, ma ha segnato due generazioni. Un ricordo molto personale è tra giornalismo e stampa. Fourcade non voleva la stampa complice. Se la stampa creava problemi sapeva di “avere in mano “ la squadra (Giovanelli può testimoniarlo) : “Voi – mi disse un giorno – non potrete mai sapere quel che prova nello spogliatoio un rugbista sconfitto”. Per questo Fourcade a proposito dei “man of the match” mi sparò una delle sue: “non capiscono il rugby”. Aveva ragione.

Ciao Mitou. Grazie di tutto.

Nell’immagine di apertura Bertrand Fourcade guida un allenamento degli azzurri (Foto Fir)

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