La città è dispersiva, il rugby qui è storia di quartieri, identità, appartenenza, dice Maurizio Bocconcelli.
È la memoria storica del rugby della Capitale, ha attraversato da protagonista un’intera era di mischie, sempre difendendo i colori di Roma, è insieme passato, presente e futuro, adesso che scarrozza per i campi verdi della città un’orda di nipoti sperando di veder crescere la terza generazione di Bocconcelli rugbisti. Maurizio Bocconcelli, un cap in azzurro contro la Romania, conosce a menadito personaggi, storie, vizi e virtù del rugby cittadino, lui che ha nel cuore la Rugby Roma vissuta da protagonista prima, dirigente e giornalista poi, ancora si commuove quando racconta dei fratelli Vinci, di Paolo Rosi, di Piero Gabrielli e dei suoi “Mille bambini a via Margutta”. La sua visione del rugby come si vive da queste parti è tipica di chi si sente ancora figlio dell’Impero, fatalismo e autoironia prima di tutto: «Dicono che per essere davvero romani – racconta sorridendo – devi rispettare due obblighi: essere qui da almeno sette generazioni e i miei nipoti sono finalmente al traguardo e aver salito almeno una volta i tre gradini di Rebibbia. Ecco, quello l’ho fatto solo per conto terzi, quando dopo una notte brava io e Franco Gargiullo un mattino andammo a tirar fuori dalla galera Rick Grenwood, reo la sera prima di aver esagerato con la Peroni…». Discendente di una famiglia di commercianti che aveva una polleria a Campo de’ Fiori e un negozio di oggetti sacri in via della Conciliazione, più romano di così.
La sua visione di come vanno le cose è lucida. E spietata: «Inizio con un aneddoto illuminante: anni ’70, la Rugby Roma andava forte, eravamo arrivati due volte a un passo dallo scudetto sempre dietro alla Partenope, Alberto Manetti sul Corriere dello Sport scriveva paginate di rugby e decise di organizzare alla sede del giornale gli stati generali del rugby romano, per cercare di mettere insieme le tante anime dell’ovale cittadino e provare ad andare tutti in un’unica direzione. Bene, si iniziò a discutere sul nome che avrebbe dovuto avere la nuova realtà: chi voleva solo Rugby Roma perché non si poteva tradire la gloria del nome, chi solo Lazio perché non si poteva prescindere dalla squadra più antica, chi per mettere insieme i contendenti propose Capitolina o, addirittura Colosseo… sapete come è andata a finire? Dopo 4 ore di discussioni ci alzammo, ci salutammo e ognuno tornò al suo ovile. Oggi, 50 anni dopo, le cose non sono cambiate, la città è dispersiva, il rugby qui è storia di quartieri, identità, appartenenza. Lasciando da parte tutti i problemi noti, dalla cronica carenza di impianti, alla concorrenza spietata degli altri sport. Perché qui se c’è un imprenditore che vuole investire nel rugby o è uno dei nostri, un romantico come è stato Renato Speziali, o un idealista come è oggi Alfredo Biagini, o ha altre opportunità di più semplice approccio, partendo dal calcio a scendere verso basket, pallavolo, pallanuoto. Viviamo una concorrenza spietata, anche se la base è ampia, ricca, sempre in movimento. Basata su un impagabile volontariato, ma frammentata in tante piccole parrocchie».
Ci sarà di nuovo spazio per il rugby di alto livello a Roma? «Nel breve periodo non credo, serve un imprenditore o un gruppo di investitori che credano nel progetto. Ma poi dove si gioca? Il Flaminio poteva rappresentare l’Eldorado, ma quella è una tipica storia romana e per il momento non mi sembra percorribile. Il momento di massimo splendore noi lo abbiamo vissuto quando, grazie a quegli intrecci che solo la famiglia ovale sa tessere, un dirigente dell’Algida si innamorò del rugby. L’azienda ci diede 140 milioni di lire che allora erano un miraggio, ci strutturammo come società, in panchina arrivò Roy Bish, in squadra dei giganti del rugby mondiale come Grenwood, Haden, Trapp, e gli azzurri Ponzi, Gaetaniello, Camiscioni. Non abbiamo vinto lo scudetto, ma ci siamo arrivati a un passo, è stata una grande avventura. Adesso si deve lavorare con un’altra visione, dopo l’eredità dello scudetto del 2000 portato da Renato Speziali (nella foto sopra, in trionfo dopo la finale contro L’Aquila al Flaminio), uno di noi che prima che essere un grande presidente era un innamorato di un ideale, si è ripartiti su altre basi. Alla Rugby Roma hanno percorso la strada dell’autarchia, sono ripartiti solo dopo essersi dotati di un impianto proprio e i frutti si vedono. C’è fermento e amore, i ragazzi sono tornati in bianconero, i vecchi sono lì a sostenerli. Ripartiamo da qui, per la gloria del nome…».
Nella foto del titolo un foto d’epoca dello Stadio Flaminio (SS Lazio Museum)