Massimo Giovanelli è così, prendere o lasciare. Quando presenta il programma cita il celebre discorso di Theodore Roosevelt alla Sorbona (quello dell’uomo dell’arena) – cosa che aveva già fatto Mandela, tra i mille altri – e quando chiacchiera con noi, Nino Bixio, perché “dopo aver fatto il Sei Nazioni, stiamo ancora aspettando di diventare un Paese di rugby. Qualcosa che in Georgia invece è realtà: il movimento sembra essere strutturato proprio in previsione di un passo più importante”.
È l’uomo degli esempi, delle frasi fatte ma anche di argute esemplificazioni, come quella del Sei Nazioni, considerato “un defibrillatore che tiene in vita il nostro movimento, altrimenti perduto”. Viene da dargli ragione più e più volte perché la sua “Visione del Capitano” – come lui presenta il suo programma in 10 punti – è figlia anche del suo carisma che non lo ha mai abbandonato. Si parla di tutto in una chiacchierata fiume che chiarisce alcuni punti del programma (che trovate qui), forse pure troppo perché una Federazione che ha perso introiti dagli sponsor, che non riesce a crescere con i tesserati, che è come un’anatra zoppa perché il movimento, salvo poche eccezioni, si ferma a Roma, avrebbe bisogno non di ripristinare il battito cardiaco ma un cuore nuovo di zecca.
Lui e la sua squadra – che trovate in home page scrollando dopo i video (clicca qui) – non ha i Ghiraldini né può contare sul sostegno di Sergio Parisse ma ha gente di rugby che frequenta i campi da 40 anni o più, con gli ex azzurri Luca Martin e Simone Favaro ad abbassare l’età anagrafica – puntano su il caposaldo del programma di Innocenti delle scorse elezioni: il rugby di base. Perché solo con una base forte si potrà avere nuovamente un campionato competitivo e il ricambio di atleti che il nostro status internazionale ci richiede. Per farlo, a parte i 10 punti che invitiamo a leggere autonomamente, Massimo dice che “l’obiettivo del primo quadriennio dovrà essere raggiungere i 100mila praticanti”, soglia evidentemente psicologica ma anche figlia di una strategia che dovrebbe portare nuova linfa a un movimento che va a velocità ridotta mentre pallavolo, basket, tennis e il solito calcio vanno al doppio. “Noi rappresentiamo il 3% dei praticanti, una nullità”, sottolinea. Per farlo, argomento trito e ritrito ahinoi, si andrà nelle scuole: “purtroppo sentiamo questi proclami dai tempi di Dondi, Gavazzi, Innocenti – argomenta -. Però poi non si è fatto nulla. E abbiamo uno sport che a livello di valori non è secondo a nessuno. Dobbiamo investirci, farci dare una certificazione dal ministero, arrivare al sud attraverso l’attività sportiva scolastica”. La grande colpa di Innocenti è proprio questa: aver promesso tanto (franchigia a Padova, un campionato stile NBA, ritornare a puntare al rugby di base, non dimentichiamoci il sud) e aver invece puntato sui risultati perché “è la cosa migliore per avere consenso. Infatti il cambio di tre allenatori in così poco tempo si spiega così”, precisa Massimo, “tutte le fiches sulla Nazionale, anche a costo di gravare sulle casse federali con un contratto molto alto dell’allenatore e dello staff. Quando probabilmente anche Crowley avrebbe raggiunto le stesse vittorie se lo avessimo assecondato di più”. Anche qui, meglio rompere e cercare un cambio di ritmo (si torna al defibrillatore) che fare vere riforme.
Ci vogliono i soldi però per riformare: “altro punto dolente della gestione corrente: sono calati i ricavi degli sponsor, della biglietteria, non si è risolto il nodo Zebre, anzi si è peggiorato, sono aumentati i costi dello staff”. La ricetta sarebbe privatizzare la franchigia di Parma (“il cui destino è segnato, non da ora: è necessario cambiare città e secondo me Banzato, a elezioni concluse e con una nuova governance, potrebbe ripensarci”), nel programma si parla di investitori arabi o comunque stranieri interessati, ma Giovanelli ammette di non potersi esporre “si è trattato solo di sondaggi tramite contatti inglesi ma l’appeal per il nostro sport e il Paese c’è”.
E poi usare meglio le risorse, sia economiche che umane in seno alla Federazione “per allocare diversamente i ricavi, perché comunque 32 milioni arriveranno sempre e il budget è quello di una media impresa: siamo come degli artigiani che devono ragionare a livello globale, aumentando la propria capacità industriale”. Il problema rugby, lo avrete capito, è simile a quello del nostro paese: calo demografico, stagnazione economica e una situazione che non ha mai superato i danni della crisi del 2008, ha solo imparato a conviverci. Certo, nel 2008 avevamo almeno il Flaminio, altro punto interessante del programma de “l’Italia del rugby”, ma anche questo non esente da criticità: “Di positivo ci sono le persone dei comitati di quartiere -spiega “Giova” – e il fatto che né il progetto del nuoto né quello di Lotito hanno avuto il via libera. E recentemente il comune ha dichiarato che non aspetterà il presidente della Lazio all’infinito. Un impianto polifunzionale, con museo e sede FIR sarebbe il massimo. Anche perché la concessione sarebbe di tantissimi anni. Dobbiamo provarci, siamo noi i legittimi eredi di quell’impianto”.
Rifare il Flaminio, che ha il suo bel daffare con altri tipi di eredi (i Nervi, parenti dell’architetto) è progetto molto ambizioso ma è il cavallo di Troia per parlare di impiantistica, il vero dramma italiano: “lo si è visto, in presenza di infrastrutture adeguate lo sport si sviluppa e aumentano i praticanti. Penso a Sinner e al suo campo da tennis: senza, avrebbe puntato sullo sci, con risultati impossibili da prevedere. Noi dobbiamo creare una task force di 30 ex atleti perché vadano a inseminare le realtà marginali, di pari passo agli aiuti del credito sportivo per mettere su nuovi impianti”. Un campo, una club house, gli spogliatoi, grandi personaggi espressione del territorio che girano per i club: è chiaro a tutti che una struttura del genere porta introiti, senso di appartenenza “e aiuta ad arginare l’abbandono durante l’adolescenza”. Ovvio, le squadre per gestire piattaforme del genere (e relativi budget) devono investire in manager perché secondo Giovanelli “ci mancano almeno 200 dirigenti. Dobbiamo formarli”.
Con Massimo Cuttitta
Oltre ai 100mila praticanti, un altro pallino dell’ex capitano degli anni Novanta è creare i presupposti per avere Milano e Roma in prima categoria entro pochi anni. E allargando a 14 – o perfino a 16 – il campionato élite, ci sarebbe poi spazio per centri urbani nel sud Italia. “Siamo andati a ragionare con una casa di produzione per il progetto di un canale tematico. Dovremmo andare per fasi, riempiendo l’offerta via via, come ha fatto Super Tennis. Però la prima domanda che ci hanno fatto è stata: “ma in Serie A ci sono Milano e Roma?”. Perché in fondo il problema è quello, a livello di comunicazione: il nostro movimento è al 50% rugby di paese che ha tanti meriti ma che porta in dote lacune, “anche perché”, riprende Massimo, “in questo modo ci sono tante scuole diverse dalla Val d’Aosta alla Sicilia”. A questo ci penserebbe Zorzi, nel suo ruolo di formatore e per tanti slot Massimo ha già in mente le persone adatte. Però la squadra completa è inutile svelarla: “ora è il tempo di avere le idee chiare”.
La sensazione, leggendo tutti i programmi, è che sia tutto molto complesso e la carne al fuoco sia parecchia, se non troppa. Un’altra considerazione è che molte riforme andrebbero messe in atto contemporaneamente o al massimo in maniera concatenata. Però nello stesso tempo dobbiamo “cambiare narrazione”, “aumentare le squadre del campionato”, “privatizzare la franchigia”, “rendere più cool la figura dell’arbitro”, “dire basta alla seconda invasione argentina”, “riformare i comitati regionale, magari accorpandone alcuni che già lavorano in sinergia”, “trovare uno sponsor tecnico per il “Touch” e mettere in piedi un progetto serio di sviluppo per il Seven”. Eccetera. O meglio, tanta roba.
Così in attesa di capire chi vincerà tra un otorinolaringoiatra (Innocenti), un architetto (Giovanelli) e un commercialista (Duodo), la sensazione è che al rugby italiano servirebbe un bravo cardiologo. O forse il dottor Frankenstein capace di metter insieme pezzi tanto diversi tra loro.