La presa di posizione di Sergio Parisse a favore di Andrea Duodo (clicca qui per vedere il video) ha inevitabilmente sollevato reazioni e qualche polemica. Alle quali, l’ex capitano della nazionale, 94 partite da skipper – Nigel Owens di recente l’ha inserito nel suo XV ideale -, non ha nessuna intenzione di replicare: “non ho bisogno della Fir per sistemare il mio presente o il mio futuro – dice, mentre in sottofondo si sentono i rumori di una squadra e di ragazzi che si allenano sul campo -. Ho un contratto con il Tolone fino al 2026, faccio una cosa che mi piace e se dico quello che dico è solo per il legame e l’amore che ho per il rugby italiano, parlo perché mi sono sempre sentito talmente coinvolto, da giocatore, da capitano, adesso da allenatore che per me alzare il telefono e dare un consiglio, un’opinione è una cosa normale. L’ho sempre fatto, sia quando me l’hanno chiesto, e anche quando il mio parere non era richiesto. Ma credo, durante tutta la mia carriera, di aver accumulato talmente tanta esperienza, tanti contatti, con giocatori, tecnici, manager, dirigenti di federazioni, ex giocatori, che qualche cosa mi sento di poter dare. In modo disinteressato perché non cerco ruoli né posizioni”.
Sergio precisa: “Sono convinto che siamo alla vigilia di un periodo molto favorevole per la nazionale. Dopo anni di sacrifici è arrivato a compimento il lungo lavoro fatto dalle accademie, che all’inizio producevano poco, ma da un certo punto in poi hanno cominciato a sfornare talenti veri, l’ultimo, Tommaso Menoncello, quest’anno, alla fine del Sei Nazioni è stato premiato come miglior giocatore del torneo. Purtroppo, questo sistema di formazione faticosamente messo a regime negli anni, negli ultimi tempi è stato smantellato, smontato, riaggiustato senza alcuna logica. Ecco per esempio un bel tema su quale si sarebbe potuto discutere tutti insieme. Ma ho visto che l’attuale presidente ha declinato l’invito al dialogo con i candidati avversari, dicendo che “la continuità della sua proposta di governance è tale da non rendere necessari ulteriori chiarimenti”, e mi viene da dire: ma come?! Il presidente è l’espressione del movimento, al quale deve rendere conto non una ma dieci, venti volte. E se ti chiedono di rispondere per la ventunesima o la venticinquesima volta lo devi fare perché quello è il tuo ruolo. Il rugby è confronto per antonomasia”.
Sergio Parisse con la maglia del Tolone, nella sua ultima stagione da giocatore (foto RC Toulon)
Cose ti fa pensare che la nazionale sia alla vigilia di anni molto favorevoli…
“Ne sono convinto. Quesada ha portato l’equilibrio che era mancato durante gli anni di Crowley. Un po’ come fece a suo tempo Brunel dopo il periodo di Mallett. Crowley puntava tutto sull’attacco, una strategia che esaltava il pubblico sulle tribune ma produceva poco in termini di risultati. L’epilogo si è visto al Mondiale. Gonzalo (Quesada, ndr) è un tecnico molto preparato e molto pratico. Tra l’altro, senza che nessuno me l’avesse chiesto, mi ero preso la briga di sostenere la sua candidatura quando in ballo per la panchina dell’Italia c’erano anche altri nomi. Lo conosco bene, e sono contento per lui”.
Ma…?
“Ecco il punto: i risultati della nazionale non possono nascondere le sofferenze della base: a queste elezioni si presentano cento club in meno, segno che per il movimento le difficoltà sono vere. Non si può ridurre tutto a due vittorie nel Sei Nazioni e dire: vedete tutto funziona bene…Ne vincemmo due anche nel 2013 (Francia e Irlanda, ndr) e come andò a finire? Ci sono voluto 11 anni per vincerne di nuovo due…”.
Bene, cosa serve per non ricadere in quegli errori?
“Serve un progetto vero, che non guardi solo all’oggi e forse neanche a domani, ma molto più lontano. Negli ultimi tre anni il rapporto tra federazione e club è peggiorato in modo radicale. Serve un piano di rilancio del campionato che offra delle opportunità serie a chi vuole investire a Rovigo, a Padova, a Reggio Emilia, a Roma o al Sud. Sono in Francia da vent’anni, ho visto il Top14, che quando sono arrivato era Top16, diventare il campionato più ricco e più importante del mondo, più ancora della Premiership inglese. Ho visto il sostegno che ha avuto dalle televisioni, la crescita di cui sono stati protagonisti alcuni club, La Rochelle per esempio, che giocava in seconda divisione ed è diventata due volte campione d’Europa”.
Facile parlare de La Rochelle, alle cui spalle c’è un imprenditore come Vincent Merling…
“Certo, e non è l’unico che ha investito nel rugby in Francia. Ma cosa facciamo in Italia per coinvolgere gli imprenditori, creare condizioni in cui credano? Prendete il Seven che qui, con la vittoria alle Olimpiadi, sta esplodendo in un modo che nessuno poteva immaginare: è stato fatto un progetto, la crescita è stata pianificata per anni. Adesso tutti dicono “Dupont…”, ma Dupont è stato la ciliegina sulla torta, dietro ci sono i club, ciascuno dei quali ha una sua squadra di Seven, ci sono i campionati e i tornei organizzati per fare spazio a questa disciplina. Non si inventa niente da zero. Per rilanciare il campionato italiano magari ci vorranno sette/otto anni. Bene, cominciamo. Se grandi giocatori accettano di andare in Giappone o in America, leghe che non hanno certo un grande prestigio internazionale, non possiamo provarci anche noi in Italia?”.
Ma lì vanno per ragioni economiche: li pagano molto.
“E noi in Italia cosa facciamo per attirare investitori, sponsor, denaro? Organizziamo un campionato senza nemmeno la televisione? O nel quale la finale, all’ultimo momento, cambia data perché c’è il Giro d’Italia?”.
E dunque perché il tuo sostegno a Andrea Duodo?
“Perché mi sembra un’opportunità concreta per guardare più in là e provare a costruire il futuro. Non ho preclusione verso alcuno. Non ho interessi personali né preconcetti o antipatie. Credo solo che abbiamo davanti una grande occasione e che non la possiamo sprecare: c’è una nazionale che può attirare interesse e visibilità, c’è un movimento che soffre e fa fatica, ci sono club che si dibattono in mezzo a molte difficoltà e molti atleti bravi che vivacchiano nelle franchigie e non giocano. Ne ho parlato con tanti, parlo con i ragazzi. So che si cresce solo giocando. Abbiamo cominciato anche in Italia a produrre buoni giocatori. Bisogna creargli un percorso, far in modo che il campionato li possa valorizzare, devono ambire a giocare in Serie A per poi andare in nazionale e nelle franchigie. In Italia abbiamo creato cinquanta club di Serie A per illudere tutti di essere giocatori di alto livello, e il risultato qual è? Che i diciottenni preferiscono venire in Francia a giocare negli Espoirs. Posso dire che c’è qualcosa che non va?”.
E quindi?
“E quindi spero che i presidenti vadano a votare scegliendo la squadra migliore per far crescere il nostro movimento, non lasciandosi influenzare da promesse estemporanee. Senza un piano chiaro nessuno va lontano”
Nella foto qui sopra, a ITV con Brian O’Driscoll e Rory Best (a destra)