Fare previsioni su come cambierà la società è sempre molto difficile. Raramente ci si azzecca. E le difficoltà rimangono anche quando il tema è molto più circoscritto – come cambierà il rugby nel prossimo ventennio, dal punto di vista della sua organizzazione. Si potrebbe dire che il cambiamento è già avvenuto: in fin dei conti, sono più di 25 anni che l’avvento del professionismo ha avviato una trasformazione radicale del rugby di vertice. Il problema però è cercare di capire quanto questa trasformazione ha impattato non solo sull’alto livello, ma anche sull’organizzazione del nostro sport più in generale. Per avviare la riflessione può essere utile ricordarsi quali fossero le basi su cui il rugby è nato e si è sviluppato.
Come ha illustrato il grande scienziato sociale Karl Polanyi alla metà del secolo scorso, la società si coordina in ultima analisi sulla base di tre meccanismi: lo scambio di mercato, in cui le risorse circolano sulla base di meccanismi di domanda e offerta; la redistribuzione, in cui un soggetto raccoglie e alloca risorse sulla base di determinati criteri (lo stato opera tipicamente in questo modo); e la reciprocità, in cui le persone si aiutano vicendevolmente sulla base di un senso di appartenenza condiviso verso qualche collettività (ad esempio la famiglia, o la comunità locale). La nascita e lo sviluppo del rugby (e più in generale dello sport nell’età vittoriana) hanno seguito prevalentemente la terza logica, quella della reciprocità.
Springboks vs Cambridge nel 1906
In quel contesto, la sfera sportiva era nettamente separata da quella lavorativa e professionale; la gestione del tempo libero e l’opportunità di sviluppare in quel modo contatti sociali significativi definivano il gentiluomo disinteressato (di donne rugbiste non si parlava ancora…). Questi partecipava alla vita del proprio club non per proprio tornaconto ma per dare un contributo alla propria comunità e/o gruppo sociale. Ciò non significa che non ci fossero dei ritorni anche significativi per i giocatori di maggiore abilità o per gli amministratori più capaci, ma questi non erano mai elargiti come ricompensa immediata per una prestazione: piuttosto, il contributo al proprio club creava o consolidava relazioni personali con vari ambienti sociali, che prima o poi si traducevano in vantaggi di varia natura (personali, professionali, politici, etc.). Si definiva così la figura del “forte dilettante”, per cui la pratica sportiva rappresentava un segno di integrazione in uno specifico gruppo sociale. Non è un caso che molti dei club storici britannici o irlandesi fossero associati ad organizzazioni tipiche della classe media o medio-alta: scuole, università, ospedali, gruppi professionali. Nelle aree in cui il gioco attraeva praticanti di ceto più modesto, alla base della reciprocità stava l’appartenenza alla comunità locale, ma il meccanismo era molto simile (pensiamo alle vallate minerarie in Galles, o alle comunità tessili e agricole degli Scottish Borders).
Accanto alla reciprocità, alcuni interventi di coordinamento di tipo gerarchico/redistributivo erano garantiti dalle unions; si trattava però di interventi alquanto circoscritti (lo staff delle unions prima del professionismo era molto limitato, e anche l’azione di coordinamento della stagione agonistica era molto limitata). Quanto alla dimensione dello scambio di mercato, questa era praticamente assente. Con tutti gli scricchiolii interni (semi-professionismo di fatto, tensioni tra club e unions, etc.), il modello sopra descritto ha più o meno retto fino agli anni ’90. Soprattutto, quella tradizione ha continuato a plasmare la mentalità delle persone che praticavano il gioco anche a livelli alti: “you play for the jersey (of club and country), not for money” era ancora il mantra nel rugby di vertice britannico degli anni ’80.
E’ indubbio che il modello britannico non corrisponda perfettamente ad altre esperienze. Per limitarsi all’emisfero nord, in paesi con una tradizione di intervento statale più marcata come Francia o Italia le federazioni hanno sempre avuto un ruolo più accentuato rispetto alle unions britanniche – ad esempio nell’organizzazione dei campionati a tutti i livelli. Credo però indiscutibile che anche da noi prevalessero di gran lunga meccanismi di reciprocità rispetto agli altri, e che l’intero sistema si fondasse su una sostanziale integrazione – di comportamenti e di modo di operare – tra la base ed i vertici.
Il Rugby Brescia in trasferta a Bagnoli, sul campo dell’Italsider, negli anni Cinquanta (archivio Beppe Vigasio)
Con il professionismo questi meccanismi si sono rotti, e si è passati ad una situazione in cui prevalgono nell’alto livello meccanismi di scambio mercantile. Questo vale non solo per i giocatori di punta e i loro rapporti con club e federazioni, ma anche per gli amministratori, o per la stessa classe arbitrale. Condiziona però anche la base dei praticanti, e attraverso dinamiche che vanno al di là della presenza di rapporti mercantili tra i soggetti. Mi soffermerei su tre processi di portata generale. In primo luogo, la crescente priorità assegnata nella società alla soddisfazione dei bisogni individuali rispetto all’assunzione di impegni collettivi. Si dirà che questa è una costante della società italiana, ma la tendenza è generalizzata e va ben al di là dei nostri confini. Gli ambiti di vita si sono moltiplicati, così come le opportunità – almeno in teoria – di organizzare il proprio tempo, per cui diventa più difficile aspettarsi dagli individui (che siano giocatori o amministratori) l’impegno costante richiesto dalla gestione di un’attività sportiva amatoriale di livello serio.
Al tempo stesso, la figura del “forte dilettante” è messa in discussione dalle modificazioni nell’equilibrio tra tempo lavorativo e tempo libero. Il modello “dilettantistico serio” si basava su persone certo impegnate professionalmente ma con una certa regolarità nell’organizzazione del proprio tempo: vuoi per la flessibilità che un’attività di libero professionista di buon livello consente, vuoi per la regolarità degli orari associati ad un lavoro dipendente stabile. Questo facilitava la routine dei due allenamenti più partita. Le trasformazioni nel mondo del lavoro hanno aumentato il numero di occupati (specialmente tra i più giovani) in posizioni contrattuali instabili, poco garantite, ed in cui la gestione degli orari è sempre più sottratta al controllo del singolo. In altre parole, si lavora un numero di ore più elevato e/o con orari scarsamente programmabili. Per chi lavora, diventa più difficile programmare il tempo da dedicare con regolarità al proprio club.
D’altro canto, sembra aumentare in modo significativo tra i giovani chi non è né studente né lavoratore a tempo pieno, e si ritrova quindi con ampie disponibilità di tempo. Magari tale disponibilità non coincide con gli orari di attività del proprio club, ma con attività di palestra invece sì. Potenzialmente, il numero di giocatori che hanno il tempo per sottoporsi ad un regime di preparazione fisica comparabile con quello dei professionisti cresce di molto. Il risultato possibile è quindi quello di un rugby amatoriale a due velocità: quello di chi non riesce a seguire neanche la routine di allenamento normale, e quello di chi invece decide di sottoporsi ad un regime di tipo quasi professionistico. Tenendo conto anche del fatto che è comunque il rugby di vertice quello che trasmette i modelli cui ispirarsi, vi sono le condizioni per la diffusione di un modo di organizzazione dello sport che appare poco praticabile per chi ha risorse limitate di tempo da investire nell’attività.
Il Savona è una delle tre formazioni liguri che hanno disputato quest’anno il campionato di Serie B (foto Rugby Savona)
Il terzo elemento da considerare è il fatto che viviamo in una società che appare caratterizzata dall’aspirazione ad abolire il rischio dalle vicende umane, che si tratti di vaccini, di educazione fisica nelle scuole, o di qualsiasi attività con una possibilità anche minima di incidenti. Anche al di là dell’impatto esercitato dalla crescita di casi di demenza presso ex-giocatori interazionali, l’intensità crescente dell’impegno fisico anche nei campionati non professionistici sembra destinata ad allontanare dalla pratica tutti quei “forti dilettanti” che non sono in grado/interessati a sottoporsi a regimi di allenamento particolarmente impegnativi. Questo a maggior ragione per chi è impegnato in attività professionali prive di una reale tutela infortunistica.
In sintesi, tra i dilemmi che il rugby dovrà affrontare nei prossimi decenni rientrano:
- come assicurare forme di impegno continuativo ad un progetto collettivo, in un contesto con forte tendenze individualistiche;
- come mantenere uno spazio per dilettanti autentici, evitando che anche il livello amatoriale finisca per assumere caratteri pseudo-professionistici
- come ridefinire le regole del gioco amatoriale onde limitare i livelli di pericolosità che l’estensione acritica della fisicità associata al professionismo inevitabilmente comporta.
La risposta a questi interrogativi non è ovvia. A gennaio 2022 il giornalista britannico Robert Kitson ha tracciato un quadro fortemente pessimistico delle prospettive del rugby amatoriale in Inghilterra (clicca qui per leggere). Nella sua visione, si potrebbe arrivare ad una situazione in cui il rugby così come lo conosciamo finirebbe per essere praticato, oltre che nella sfera professionistica (peraltro ristretta, ché già il Championship, il second livello di competizione, appare finanziariamente poco sostenibile), soltanto nelle università ed in una ristretta lega per prime squadre di club. Il resto degli appassionati si dedicherebbe ad attività meno impegnative del tipo touch o tag-rugby. Non è uno scenario da escludere neanche per il nostro paese: in fin dei conti, già adesso la FIR sostiene varie attività di contorno, dagli Old al Touch, Tag, Snow e Beach Rugby); inoltre, almeno l’UISP (ignoro se sia l’unico caso o meno) organizza una lega amatoriale con una ventina di club che seguono regole parzialmente diverse. Sarebbe una maniera di mantenere quei rapporti di reciprocità che si sviluppano intorno a realtà specifiche locali (molti club già adesso sono molto bravi a coinvolgere ad esempio i genitori dei bambini coinvolti nelle varie under). Sarebbe invece fortemente a rischio il livello di “forte dilettantismo” che ha rappresentato sinora la forza del rugby come importante canale di coesione sociale.
Nella foto di apertura, squadre schierate al centro del campo al Lanfranchi di Parma per la finale di Coppa Italia del 2019 (foto Federugby)