Istantanee da St Denis per Irlanda – Nuova Zelanda, scattate con gli occhi e con la mente, registrate: il boato continuo, l’haka cancellata, l’isola in uno stadio, i Barrett cresciuti in Irlanda, i neozelandesi – due maori e un samoano – diventati irlandesi, le bestie verdi e le bestie nere, le 30 fasi dei Blacks, le 37 finali degli irlandesi, un ultimo, lungo disperato assalto con le forze che si dileguano e la carica diventa un attacco a piedi su un colle sempre più alto.
Con la sua aria da oste, da gestore di pub, con quel suo sorriso all’apparenza bonario, Ian Foster entra nella categoria degli strateghi. Nel suo stato maggiore, Joe Schmidt, artefice e plasmatore della macchina verde. Ricorda von Clausewitz e la sua arte della guerra. Meglio averlo dalla propria parte.
L’Irlanda perde, di poco ma perde. Non capisce come Mo’unga riesca a trovare un corridoio e a percorrerlo per trenta metri. Di solito non ci riesce nessuno. Chissà se è stato quello il momento in cui gli irlandesi hanno capito che tutto, o molto era perduto.. O forse è stato quando Porter è stato tenuto alto da Jordi Barrett e magari una volta a avrebbero dato meta ma ora non è così.
Sexton sempre più ingobbito: la clessidra del tempo che fa scorrere gli ultimi granelli di sabbia. E gli altri che uscendo pensano alla loro data di nascita: O’Mahony, Furlong, Murray, Aki, tutti troppo stagionati per puntare verso il 2027.
Una magnifica semifinale, una finale che ha fatto vibrare i cuori. Era solo un quarto: più in là il trifoglio non ha mai attecchito.
nella foto di David Ramos – World Rugby/World Rugby via Getty Images-, Garry Ringrose placcato da Aaron Smith