Non può inquinare la storia, sa che certi gesti sono irripetibili. Cyril Ramaphosa, presidente del Sudafrica, sindacalista e avvocato di Madiba ai tempi del lungo cammino verso la libertà del Paese Arcobaleno, la maglia verdeoro con la gazzella cucita sul cuore la infila solo quando capisce che allo Stade de France è arrivato il momento di festeggiare. Quel gesto è un po’ di rispetto per il passato e un po’ obbligato dal momento, perché i suoi hanno vinto la finale più massacrante che si ricordi, e se questa volta si sarebbe dovuta scomodare una sceneggiatura, altro che Invictus, il primo titolo che viene in mente è “Un rumore di ruggine e ossa”.
Alla fine ha vinto il Sudafrica di un misero punto (12-11), ha preso tutta per sé la storia del Mondiale ovale (4 titoli, come nessuno), dominando la sfida con gli All Blacks di Nuova Zelanda, con la testa, i muscoli, il fisico, le alchimie tattiche tirate fuori dalla sua personale lampada da quel genio che è Rassie Erasmus, il vero artefice di questo miracolo sportivo. E sì, perché gli All Blacks sono più forti, più tecnici, più veloci, più padroni del gioco, ma gli Springboks hanno dimostrato di essere il rugby originario, tasselli di una squadra e di un Paese costruiti e cresciuti intorno a una mischia. Parigi si inchina di fronte alla forza della determinazione, alle lacrime di Bongi Mbonambi, nero nel giardino dei bianchi, che sognava una sera così da una vita e che invece dopo 2 minuti ha sentito il suo ginocchio fare crack: si è tirato su dal prato barcollando, ha zoppicato, ha provato a continuare, prima di alzare bandiera bianca e capire che per lui la festa appena cominciata era già finita. O alla capacità del condottiero Siya Kolisi che a Parigi non doveva esserci per colpa di un legamento saltato ad aprile e che invece alla fine ha alzato al cielo per la seconda volta consecutiva quei 4 chili e mezzo placcati d’oro che nobilitano la carriera di ogni rugbista, dopo esser corso a baciare in tribuna Rachel, la moglie biondissima e boerissima che, insieme con la Bibbia, giura sia la sua ispirazione terrena.
È stata una guerra di trincea, di conquista di territorio, di sacrificio e scontri durissimi, di sportellate in mezzo al campo, di difesa ai limiti del possibile, di palloni affidati al cielo, di errori ad altissima velocità, di sviste arbitrali e tante, troppe pause. Ma una finale mai è stata bella, si sa che lo spettacolo sta nelle pieghe del pathos che sa generare. Un equilibrio asfissiante, rotto solo dai calci piazzati (4) di quella macchina sparapunti che è Handrè Pollard (un altro che non doveva esserci e che è arrivato solo a Mondiale in corso) e messo in dubbio dalla meta neozelandese, l’unica della giornata, di Beauden Barrett. Fine del racconto, il resto è storia, è Peter Steph Du Toit che tira 28 placcaggi per togliere il fiato agli avversari e si mette al collo la medaglia di miglior giocatore della serata, è il capitano neozelandese Sam Cane che sbaglia la misura in difesa, non si abbassa per placcare l’avanzata di un avversario e lo centra con la spalla all’altezza della nuca. L’inglese fischiatutto Barnes guarda e riguarda l’azione, l’arbitro televisivo chiuso nel suo bunker decide per il cartellino rosso. Cane esce a testa bassa e crolla in panchina. Passerà il resto della serata guardando il vuoto, lui che voleva regalare felicità al popolo dell’Isola della Grande Nuvola Bianca, e che invece sprofonda nella tristezza per aver lasciato i compagni in nero orfani del loro riferimento.
Nella sera degli All Boks, oggi come allora, 62 milioni di sudafricani dimenticano problemi e disuguaglianze e si uniscono nella gioia. La sera di Invictus festeggiarono l’intuizione di Mandela e una squadra di 15 boeri sostenuta da 4 milioni di bianchi. Una generazione dopo in quella squadra ci sono 14 giocatori di colore e a casa 62 milioni multicolor a trepidare per loro.
Al momento della resa dei conti ha vinto ancora il Sudafrica. Ha trionfato Mandela.
Pieter-Steph Du Toit placcato da Scott Barrett (foto di David Ramos – World Rugby/World Rugby via Getty Images)