“Mi ha chiamato white cunt, fica bianca. Cosa faccio, sir?”. “Ci penso io”. Dialogo sul prato dello Stade de France, nel furore della battaglia, tra Tom Currry e Ben O’Keeffe. L’insulto razzista, dice Tom, che uscirà poi dal campo più pesto del solito, era arrivato da Bongi Mbonambi, tallonatore degli Springboks. Alla fine, mentre Farrell e Le Roux si strattonavano e l’aria era piuttosto rovente, nessuna stretta di mano tra i due. Tutto finirà davanti al tribunale che prende in esame il rapporto del commissario addetto alle citazioni?
Coda cosparsa di veleno alla semifinale che introduce al remake di quanto hanno raccontato la storia e Clint Eastwood: una finale mondiale tra Nuova Zelanda e Sudafrica (che insieme hanno spazzato via il 6 Nazioni) non si vedeva dalla “premiere” del ’95, Ellis Park. Migliore in campo, Nelson Mandela che nel frattempo, dai Campi Elisi, avrà notato che dalla maglia verde e oro è sparito il 46664, suo codice carcerario, e la Springbok è diventata così piccola e così confinata (su una spalla) da risultare quasi invisibile. La protea ha avuto la meglio, come volevano i più radicali dei suoi compagni di partito.
Quella volta venne scritta la storia, sabato potrebbe esser scritto qualcosa di più: il dominio su uno sport che compie 200 anni – almeno, così dice la leggenda – la risoluzione di una rivalità che va avanti da un secolo abbondante e che ha causato eventi che hanno lasciato il segno, uno per tutti il boicottaggio dei paesi africani all’Olimpiade di Montreal: la Nuova Zelanda continuava a intrattenere rapporti rugbistici con il Sudafrica, bandito dalla comunità internazionale e dallo sport per l’apartheid che coinvolgeva i quattro quinti della popolazione. Nello stesso periodo non se la passavano meglio gli abitanti neri di Alabama, Mississippi, Louisiana etc, ma come è di moda dire, per tagliar corto, questa è un’altra storia.
Attendendo quel che capiterà a St Denis, rimane da investigare sulla personalità dell’uomo che ha riportato gli Springboks sino in fondo e in questo senso una buona chiave di lettura sono le pagelle del Guardian: voti alti agli inglesi che hanno interpretato la partita al meglio delle loro possibilità, voti medio-bassi ai sudafricani (Libbok 3, ad esempio), voti altissimi ai sudafricani che dalla panchina si sono trasferiti in campo e hanno impresso la svolta, a cominciare dal piccolo e vasto pilone Nche e per continuare con il gigante Snyman che aveva preso il posto di un totem come Etzebeth e che ha finito per segnare l’unica meta del match.
Dunque, chi è Johan Erasmus, detto Rassie, 52 anni, nativo di Port Elisabeth, 36 volte in campo con gli Springboks e sette mete nella squadra che con Nick Mallett al comando finì terza nel ‘99? Da questo momento, nell’elencazione dei ruoli che lui interpreta, sarà evitato il punto interrogativo. Ognuno può scegliere l’opzione che gli va.
Erasmus è il genio della lampada, Erasmus è un prestigiatore, è un tipo baciato dalla fortuna e tutto gli va sempre per il verso giusto (un punto sulla Francia, un punto sull’Inghilterra), è il Mourinho del rugby, è il nuovo “Labbro”, come Alì, è un provocatore, è un manipolatore via social, è un conoscitore così profondo delle regole da trovare la soluzione giusta ai problemi (la girandola delle sostituzioni con la Francia è già un classico, basketizzando il rugby), è un sublime attore in conferenze stampa in cui snocciola dati come un calcolatore e annuncia la formazione… degli avversari, è un comandante supremo che ha continuato a tenere il bastone da feldmaresciallo anche quando era stato allontanato dopo il suo lungo recital contro Nik Berry, è il diretto superiore di chi (Jacques Nienaber) ha la carica di commissario tecnico e gli siede accanto, accigliandosi, incazzandosi, dando tutte le disposizioni che gli frullano in testa. E di solito gliene frullano parecchie.
Se sabato batte gli All Blacks (di un punto?), affidati a chi (Ian Foster) ha un aspetto molto placido, da gestore di pub, e porta a casa la sua seconda coppa, la quarta del Sudafrica, finirà che gli faranno una statua, come a Danie Craven. Senza il cagnolino, però.