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Stefano Romagnoli

di Valerio Vecchiarelli

Un’isola ovale in mezzo alla Pianura (Padana), Colorno, a un tiro di schioppo da Parma, fa il solletico ai giganti e ci prende gusto: secondo scudetto giovanile consecutivo, lo scorso anno vittoria in finale con il Benetton Treviso, quest’anno replica contro la Capitolina (22-19 nella finale di Calvisano). Due indizi possono fare una prova, forse a Colorno sono riusciti a confezionare un modello di cui il rugby italiano può andar fiero. La testa pensante del progetto è Stefano Romagnoli, pilone azzurro prima, tecnico dell’Italia A ai tempi in cui Georges Coste dettava frenetici ritmi di crescita all’intero movimento, fino ad arrivare a buttar giù a spallate il portone che ci divideva dal mondo dei grandi.

Caratteri forti e inevitabili infinite discussioni, fino a quando Romagnoli si fece da parte. Ma guarda caso, nel 2006, quando il presidente federale Giancarlo Dondi recepì l’invito dell’International Board che chiedeva ai paesi emergenti di dotarsi di Accademie per la crescita dei giovani, a garante del progetto chiamò Georges Coste che, per prima mossa, volle proprio Stefano Romagnoli nel più importante ruolo operativo. Solo chi non ha una lucida visione dell’orizzonte può vivere di rancori.

Con le Accademie federali sappiamo come è andata a finire, chiuse per fine progetto, una scelta drastica che ha fatto tornare Romagnoli sui propri passi, fino a sbattersi la porta alle spalle.

Adesso l’avventura in un piccolo paese emiliano, l’esperienza e un amore sconfinato per il rugby italiano messi di nuovo a disposizione della causa.

Dopo i due scudetti giovanili, possiamo parlare di un «modello Colorno»?

«Non credo – taglia corto Stefano Romagnoli, il director of rugby del club – ma sicuramente possiamo parlare di un progetto che ha a cuore la crescita del nostro modo di intendere rugby. Personalmente io ho messo a disposizione la tanta esperienza maturata in Fir, ho riproposto in scala un modello che continuo a pensare sia stato vincente; basta guardare quello che ha fatto la nostra Under 20 negli ultimi anni, consolidando l’ottavo posto a livello di Coppa del Mondo, diventando una squadra di riferimento del Sei Nazioni e formando giocatori pronti a vestire la maglia della Nazionale. Chiudere l’Accademia è stata una scelta sbagliata, perché quando si operano scelte politiche e non tecniche spesso si va incontro a errori. E allora ho provato a dare continuità alle mie convinzioni in un club di un paese, quasi una famiglia, che ha accettato la scommessa».

Mettiamo in fila queste convinzioni…

«Essendo un centro molto piccolo, non possiamo fare altro che andare in giro per l’Italia a cercare ragazzi che abbiano la voglia e le potenzialità per crescere. Naturalmente dobbiamo essere bravi ad andare oltre quelli “noti”, già entrati nel giro federale o delle franchigie. Offriamo loro la possibilità di intraprendere un percorso di formazione, vitto, alloggio, l’istruzione scolastica, il miglior modo possibile per crescere. Per fare ciò, però, abbiamo dovuto creare una struttura adeguata; l’impianto, la palestra e tutta l’assistenza possibile. I ragazzi hanno 3 fisioterapisti a disposizione, una costante assistenza medica, i preparatori atletici, il nutrizionista e uno staff tecnico: solo nell’Under 19, per esempio, con Riccardo Piovan lavorano altri quattro allenatori. Chi accetta la nostra proposta viene da noi e inizia un percorso di formazione, ci sono giocatori come Francesco Ruffolo che qui è cresciuto e oramai sono 6 anni che vive questa esperienza. Chiamarla accademia è troppo, però di sicuro abbiamo lo spirito giusto e facciamo vivere i ragazzi con pochissima pressione. Io ho voluto, e resto della mia idea, che il Colorno abbia 2 squadre nell’ultima categoria giovanile. Un po’ per una sana competizione tra i giocatori, un po’ perché per imparare a giocare bisogna giocare».

Poi succede che i ragazzi pronti per l’alto livello, vengono in mente Mey e Odiase per esempio, alla prima occasione facciano le valigie e vadano all’estero.

«Questo è un problema che va affrontato, io sono convinto che se teniamo al rugby italiano dobbiamo noi caricarci la responsabilità di far crescere i giocatori italiani e non delegarla agli altri. Certo al momento siamo impotenti, la capacità economica e attrattiva di grandi club esteri per noi è irraggiungibile. Se è così noi non possiamo fermarli, ma allora mi viene da fare un’altra domanda: perché un club deve spendere in formazione se poi per puntare a un campionato di alto livello deve riempirsi di stranieri? Adesso sembra che sul modello degli Espoirs francesi la Federazione stia introducendo una categoria Cadetta, potrebbe essere una giusta logica, ma potrebbe essere anche un problema per molti club, perché vai a togliere giocatori alla base del rugby. Per club come noi, che vogliamo mantenere le due squadre a livello seniores (Colorno in Élite e Barbari del Po in serie B, ndr) potrebbe essere complicato, ma ben venga. A patto che si strutturi con regole chiare e che venga individuata una strategia che miri esclusivamente allo sviluppo dell’intero movimento».

Torniamo indietro, all’esperienza Accademie.

«Quando abbiamo iniziato pensavamo che in un decennio avremmo potuto avere un’Accademia che rispondesse alle esigenze del rugby attuale. E credo che con il numero di giocatori juniores messi a disposizione dal movimento quello che abbiamo fatto sia un vero miracolo. Adesso si riparte dall’anno zero, se si vogliono le accademie all’interno dei club bisogna che la Fir aiuti questi club, formi i tecnici da mandare sul territorio, faccia da supervisore a strutture e organizzazione. L’idea è accattivante perché potrebbe far espandere lo sviluppo del rugby a tutto il territorio della Serie A Élite, ma forse un decennio non basterebbe più per raccogliere i frutti. Siccome noi siamo quelli che pretendono subito i risultati, ho paura che si possa fare un passo indietro, alla nostra era, quella della grande Nazionale di Georges Coste basata su 10 giocatori forniti dalle due pseudofranchigie di allora, Milano e Treviso per intenderci, e tutti gli altri di formazione straniera. La direzione imboccata mi sembra quella, ma non era l’obiettivo di chi ha lavorato per far crescere dentro casa sua il rugby italiano. Se questo è il nuovo modello dico con convinzione che bisogna pensare a qualcosa di diverso».

Intanto alla guida della Nazionale arriverà ancora un tecnico straniero… 

«Non lo vedo come un problema, anche nei Paesi rugbisticamente evoluti spesso si affidano ai migliori tecnici in circolazione, senza badare al loro luogo di nascita. Succede perché nel professionismo si chiede di vincere subito, si è ogni volta alla ricerca del successo a tutti i costi. A livello professionistico è tutto molto semplice, chiedi e alleni il meglio che la struttura ti può mettere a disposizione. Ma formare un giocatore e guidare una squadra sono due cose molto diverse e la prima è sicuramente assai più complessa. Però anche lì bisogna avere una visione: se hai scelto un grande tecnico straniero, e sicuramente Quesada è di questo gruppo, lavora perché al suo fianco crescano i tuoi tecnici, quelli su cui hai investito nel tempo. Ancora una volta bisognerebbe avere coraggio, crederci, dare fiducia a chi si è formato alle spese del rugby italiano. Solo chi prova a giocare, sbaglia. Noi per esempio con le Accademie abbiamo fatto degli errori, ma sempre perché siamo innamorati di questo gioco e in alcuni frangenti abbiamo provato a fare una giocata impossibile. L’importante è riconoscere i propri errori e avere fiducia nel percorso intrapreso. Solo così, forse, in un giorno non troppo lontano potremmo avere un tecnico italiano alla guida di una Nazionale di giocatori formati e cresciuti in Italia».

Foto: rugbycolorno.com

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