di Gianluca Barca
Il gesto è stato stupido, sgradevole, ignorante. Ma sei mesi di squalifica per un giocatore che ha regalato a un compagno (di origine africana) una banana, sanno di una fucilazione esagerata, eseguita per compiacere l’establishment del rugby internazionale, custode ipocrita dei suoi valori sempre più sbiaditi.
Che nel rugby non debba esserci posto per il razzismo è fuori discussione. Ci mancherebbe altro. Ma il razzismo è una piaga che si combatte con ben altri interventi che una severa punizione a un giocatore che quasi certamente si è fatto prendere la mano dal clima decisamente sopra le righe di una cerimonia privata nel corso della quale il regalo più elegante, fra i tanti, è stato una bottiglia piena di urina.
Ivan Nemer è un ragazzo di 22 anni, cresciuto a Mar del Plata, in Argentina, e si è fatto certamente trascinare dall’atmosfera decisamente “grossier” di un evento noto per le sue esagerazioni (Secret Santa, ossia regali anonimi fra compagni di squadra). Nemer è razzista? Io credo di no. Ha commesso una sciocchezza grave? Senz’altro. La cosa come tale doveva essere punita. Con una severa lavata di capo da parte dell’allenatore e del team manager, con un le scuse all’interessato, un paio di partite (forse) di sospensione e una multa pecuniaria comminata dalla società. Probabilmente il ragazzo avrebbe capito di averla fatta grossa. Magari niente partite con la Nazionale a per i primi due turni del Sei Nazioni. Tanto per fargli capire cosa significa rappresentare l’Italia.
Un paese, peraltro, in cui tutte le settimane negli stadi di calcio, davanti agli occhi di migliaia di spettatori, si compiono gesti di razzismo, quelli sì consapevoli e molto più gravi perché frutto di isteria e una pericolosa ideologia collettiva.
Per gli ululati contro due giocatori del Lecce, Umtiti e Banda, la curva della Lazio, lo scorso 5 gennaio, è stata squalificata per un turno (un turno!).
Ed è bene sottolineare che l’Italia, per convenienza politica (o connivenza?) ha derubricato il saluto romano, ovvero un gesto che la Costituzione considera propaganda atta alla diffusione dell’ideologia fascista e nazista o comunque fondata sulla superiorità o l’odio razziale o etnico, a semplice atto “commemorativo”.
Non c’è sconto invece per le banane.
Ecco perché considero la sentenza comminata al giocatore del Benetton un’esagerazione ipocrita, che scopa sotto il tappeto il razzismo vero, quello sociale, educativo ed economico.
Lo spogliatoio è un luogo dove almeno la metà di ciò che viene fatto e detto contravviene le regole del politicamente corretto e di un rapporto civile. Dobbiamo difendere queste pratiche medievali? No, ma è bene ricordare che pochi giorni fa gli insulti di Joe Marler alla mamma (malata di cancro) di un avversario neozelandese sono stati puniti con sei settimane di squalifica (non sei mesi), ridotte con la condizionale a due. E questo solo perché gli insulti sono stati registrati dall’audio di una telecamera. L’arbitro aveva scosso la testa e fatto finta di non sentire.
Vent’anni fa, prima dell’avvento dei social il fatto di cui si è reso colpevole Nemer sarebbe stato risolto anche duramente, all’interno dello spogliatoio. Non perché il rugby debba essere omertoso, o perché i panni sporchi vadano, ipocritamente, lavati in casa. Ma perché ci deve ancora essere una misura tra ciò che è grave veramente e ciò che lo è meno: il francese Pascal Pape qualche anno fa fu sospeso 10 settimane per una ginocchiata nella schiena che mandò l’irlandese Jamie Heaslip all’ospedale con tre vertebre rotte.
Un giorno Nemer racconterà ai nipoti di aver giocato per l’Italia, prima che una lunga squalifica ne interrompesse la carriera.. Gli chiederanno se aveva colpito un avversario a terra con una pedata in testa, o se gli aveva calpestato il collo.
Dirà: “gli avevo regalato una banana…”. Svegliamoci, il razzismo è una cosa seria.
Nella foto (Daniele Resini/Fotosportit), Ivan Nemer attacca con Michele Lamaro in sostegno.