Si è spento Marco Bollesan che nella vita è stato tutto: scugnizzo d’Albaro e operaio, canottiere e fuoricasta prima di trovare nel rugby la sua vocazione: giocatore, capitano, allenatore, manager, telecronista, sempre senza peli sulla lingua, mai spaventato, sempre guerriero.
Bollesan, in Italia, è stato il rugby prima del rugby, uno sportivo capace di elevarsi al di sopra del proprio ruolo. In un paese che negli Sessanta conosceva quasi solo il pallone tondo, Marco divenne famoso quasi come Mazzola e Rivera.
Era spaccone e irriverente, simpatico e coraggioso. Aveva una personalità debordante.
In Nazionale esordì nel 1963 a Grenoble contro la Francia, la famosa “Mala Pasqua”: Azzurri sconfitto 12-14 con una meta di Darrouy all’ultimo minuto.
Quarantasette cap, quando la Nazionale giocava due o tre partite all’anno, trentaquattro volte capitano. Per anni è stato il volto e il nome del rugby italiano. Campione d’Italia con la Partenope nel 1966, poi con il Brescia nel 1975. Una carriera piena di aneddoti e storie picaresche, mete, sconfitte e vittorie.
Nel 1973 fu trascinatore e protagonista della famosa trasferta in Sudafrica, quella che portò il rugby azzurro in altro mondo, dando ai giocatori che parteciparono al tour la consapevolezza di un’altra dimensione del mondo ovale.
Allenatore della Nazionale italiana al primo Mondiale, nel 1987, poi della selezione azzurra ai Mondiali universitari del 1988 nel Sud-Ovest della Francia. Manager al fianco di John Kirwan ai Mondiali del 2003 in Australia. Con Lorenzo Bonomi e Renato Tullio Ferrari aveva fondato le Zebre, quando la maglia a strisce orizzontali bianche e nere era sinonimo di club a inviti e non di PRO14 o di Celtic League.