Federico Mori è un ragazzo che sa quel che vuole: arrivare in alto. Le aspettative non lo preoccupano, lo caricano.
Noi siamo fatti della stessa sostanza dei sogni, dice Shakespeare ne La tempesta. Ma Federico Mori è assai più consistente di un sogno: 1.88 di altezza, 106 kg di peso. Muscoli, velocità, forza.
Tuttavia lui pure ovviamente sogna: “dopo la convocazione per i raduni di quest’estate, qualche pensierino a giocare a fine ottobre contro l’Irlanda o l’Inghilterra, sono onesto, l’avevo fatto. Magari quando metto un po’ di musica e mi lascio portare dalla fantasia…”.
A quel punto che succede? gli chiediamo.
“Si alzano le pulsazioni…” risponde ridendo. Perché anche nella fantasia c’è tanto di reale e il ragazzo, sotto la scorza del gigante, è emotivo quel tanto che basta per capire che vestire la maglia azzurra non è la norma. “E’ il sogno che coltivo da quando ho cominciato a giocare, da quando ero bambino”, ammette.
Già, provate a immaginarlo Federico Mori bambino: tanto piccolo non deve essere mai stato e fino a nove anni si dilettava col kick boxing. Un combattente in miniatura.
Poi in autunno sono arrivati primi cap, e il risveglio è stato brusco. “Potrei dire che sono onorato di aver indossato la maglia azzurra, che era il mio obiettivo fino da bambino. E fermarmi lì – dice -. Ma per me che vengo da una famiglia di sportivi questo non basta. Volevo fare molto di più, ero convinto di poter lasciare un segno, far vedere quanto valgo a tutta la gente che mi aspettava. E invece non ci sono riuscito. Sono sincero, per me è stata una delusione”. Mori tra le ultime due partite del Sei Nazioni e la Autumn Nations Cup è stato impiegato cinque volte, nell’ autunno internazionale, sempre dalla panchina, per un totale di circa 170 minuti.
“Il problema è che non giocando mai dall’inizio mi sono trovato spesso in situazioni particolari: entravo in momenti critici, magari in una posizione diversa da quello che avevo preparato durante la settimana. Io mi sento un trequarti centro e in più occasioni sono finito all’ala, dove a quei livelli non ho ancora un’esperienza così profonda. Mi sono sentito un leone in gabbia, volevo spaccare il mondo e non mi è riuscito di dimostrare minimamente quello che volevo”.
A fine agosto Federico aveva giocato con la maglia delle Zebre entrambi i derby contro il Treviso. Negli stessi giorni, a Padova, ai campionati italiani di atletica leggera, la sorellina Rachele, classe 2003, frantumava il record italiano juniores del lancio del martello, classificandosi seconda assoluta in finale dietro alla più esperta Sara Fantini. Due settimane più tardi, a Rieti, Rachele ha battuto anche il primato nazionale “allieve” (martello da 3 kg), arrivando oltre i 70 metri.
Federico chi è la star in famiglia in questo momento, tu o lei?
“Lei – risponde senza esitazione il giocatore di Zebre e Calvisano – perché sta facendo grandi cose e non si possono paragonare le difficoltà e la pressione di uno sport individuale con le discipline di squadra. In una squadra condividi le emozioni, nel corso della partita hai chi ti consiglia, ti sprona e ti sostiene. Nel lancio del martello quando entri nella gabbia sei solo, con i tuoi pensieri, la tua concentrazione, la tecnica, l’esecuzione…”.
Anche tu, come fisico saresti un bel lanciatore di martello…
“E infatti lei me lo dice sempre che dovrei provare…”.
Nella vostra famiglia l’atletica ha un esempio mica da niente, vostro zio Fabrizio è stato campione del mondo dei 400 hs, nel 1999 a Siviglia, e medaglia d’argento a Edmonton, nel 2001, dopo una battaglia emozionante con Félix Sánchez.
“Fabrizio per noi è sempre stato una grande fonte di ispirazione, di aiuto, anche se quando ha vinto il Mondiale io non ero neanche nato e nel 2001 non avevo nemmeno un anno. Avere in casa un campione così è un dono del Signore. Ma devo dire che tutta la nostra famiglia, a partire da mio padre (papà Paolo è stato giavellottista, ndr) e mia madre, è sempre stata presente alle nostre spalle, ci ha sempre spinto, siamo un grande team allargato. Anche il figlio di Fabrizio, Gabriele, mio cugino, è un buon velocista, agli italiani allievi, nei giorni scorsi, ha fatto il record italiano di categoria della 4×100 con il quartetto dell’Atletica Livorno”.
Anche Federico, in quanto a velocità non è messo affatto male.
“Un giorno, al campo di atletica, Fabrizio mi prestò le sue scarpette da corsa, quando ancora mi andavano bene (ride), e facemmo una prova sui 100 metri. Partenza in piedi, senza blocchi. Venne fuori un tempo fra 10.8 e 10.9, mica male per l’età che avevo”.
Poi nei progetti di Federico Mori è stato solo rugby: l’Accademia a Remedello, le Zebre, il Calvisano.
Tecnicamente Federico è un “dual contract”, un giocatore che può vestire due maglie: quella delle Zebre in PRO14 e quella del Calvisano in Top10.
C’è il rischio di perdersi, non sapendo bene dove stai di casa, chiediamo?
“Diciamo che quella del doppio contratto è una cosa che lascio affrontare a chi di dovere. Io mi preoccupo di giocare e di fare bene sul campo”.
Ma se dovessi trovarti di tanto in tanto a giocare a Calvisano, non ti sentiresti un po’ deluso, un po’ sminuito nel tuo ruolo di promessa?
“No, perché quando l’arbitro fischia l’inizio di un match è una partita come un’altra e tu non devi stare a pensare dove giochi e chi è l’avversario, devi dare il massimo e se puoi fare cinque mete, dico per dire, le devi fare. Il rugby non ammette sconti o compiacenze. Poi certo, posso dire che magari non è la stessa cosa prepararsi per giocare a Tolone o a Colorno, senza nessuna offesa per Colorno. Ma la mia crescita passa da qualunque partita io debba affrontare”.
Fidanzate, affetti stabili ce ne sono?
“No, perché in questo momento capisco che non è facile per nessuna condividere la vita con qualcuno la cui agenda è così fitta di impegni e di obiettivi nello sport. La troverò quando sarà il momento giusto”.
Pare di capire che sei molto concentrato sui tuoi traguardi rugbistici.
“Moltissimo. La mattina quando suona la sveglia non vedo l’ora di essere al campo e di cominciare”.
Tuo zio Fabrizio era un perfezionista.
“E infatti la sua raccomandazione principale è sempre stata quella di avere tutto pronto e in ordine nella nostra “cassettina” degli attrezzi: fare tutto quello che si deve fare, alimentarsi correttamente, preparare le cose a puntino, non lasciare niente al caso. Un insegnamento fondamentale”.
Delusioni ne hai avute nella tua carriera ovale?
“Forse la più grossa è stata la sconfitta, 29-30, quest’anno con la Scozia U20, a Reggio Emilia (sua una delle quattro mete degli Azzurri, che a un certo punto vincevano 24-15, ndr): dovevamo dargli quaranta punti e invece li abbiamo fatti rientrare in partita e ci siamo fatti battere nel finale, un match che non dovevamo mai perdere. E poi non aver potuto giocare il Mondiale in casa, ne parlavamo da tanto tempo, c’erano tante aspettative. Quella sì è stata una delusione amara da digerire”.
La meta dell’anno scorso contro Edimburgo, all’esordio con la maglia delle Zebre, ha acceso su di te i riflettori e creato molte aspettative, ti pesa tutto ciò?
“Onestamente no. Perché dovrebbe pesarmi? Vivo per questo, ho sempre lavorato per arrivare in alto, giocare ad alto livello mi dà la carica per insistere. Non ho mai pensato allo sport come a un sacrificio, quando gli amici mi chiedevano “andiamo al cinema, usciamo?”, non mi ha mai pesato dire di no, giocare a rugby era quello che volevo fare”.
Federico Mori è un giocatore moderno, velocità, fisico, buona tecnica individuale: “mi piace attaccare, sfidare l’avversario nell’uno contro uno, mi piace il confronto fisico, anche in difesa – racconta -. Il Super Rugby? Lo adoro anche se capisco che rispetto al nostro è tutto un altro mondo. Ma mi piace quel modo di prendersi dei rischi, di giocare la palla anche nei propri 5 metri, senza troppe strutture, off load, sostegno. Un modello di giocatore? Mah, ogni tanto guardo le azioni di Sami Radrada, figiano del Bristol, lo studio per copiare, per imparare”.
Cosa devi migliorare?
“Devo imparare a gestire meglio i diversi momenti: imparare a essere al posto giusto al momento giusto, cose che più giochi più ti vengono naturali. In difesa, devo essere più preciso nel togliere spazio al mio avversario diretto. Mi piace il placcaggio duro, in avanzamento, anticipando il movimento della linea, ma, da 13, se sbagli il tempo, rischi di non riuscire più a recuperare l’inferiorità che si crea all’esterno”.
Sule piattaforme social, la sua foto profilo lo ritrae al mare. “E’ dove noi Mori ci rifugiamo da sempre, a Livorno, o alla California. Siamo gente di mare, il mare è casa nostra. Ma ogni anno, d’estate c’erano anche un paio di settimane in montagna, tutta la famiglia, a Fiera di Primiero. Adesso sono meno libero, ad agosto mi alleno”.
(Una parte di questo articolo è uscita sul numero 151 di Allrugby, lo scorso mese di ottobre)
Nella foto, una carica di Federico Mori contro la Scozia, nell’Autumn Nations Cup (foto Roberto Bregani/Fotosportit)