Quarant’anni fa ero a Limerick per il Mondiale di corsa campestre che venne vinto dall’esile, diafano John Treacy, detto la meraviglia di Waterford. Alla vigilia, tornando dall’aver visitato gli Azzurri, passai accanto a Thomond Park, lo stadio del Munster, in cartello una partita contro l’Ulster. Lo stadio era molto diverso: le panche erano vecchie e umide, il pubblico scarso. Non posso testimoniare che tra i presenti ci fosse un Conor O’Shea bambino. Non è escluso. Il 5 Nazioni era appena finito e l’Irlanda aveva chiuso giusto nel mezzo: pareggi con Francia e Scozia, sconfitta stretta con il Galles (che mise le mani sul trofeo), vittoria sugli inglesi grazie al piede di Tony Ward.
Oggi l’Irlanda è reduce dall’aver giustamente monopolizzato gli Oval-Oscar 2018, dall’aver incamerato i complimenti di Steve Hansen (“Il ranking dice che siamo primi noi, la realtà dice che siete primi voi”), dall’aver percorso un anno di sogno: 6 Nazioni, Grande Slam, Coppa dei Campioni (Leinster), vittoria nella serie in Australia, successo sugli All Blacks, il secondo nei tre ultimi confronti. L’Italia, che vent’anni fa batteva gli irlandesi, in tre match contro i verdi ha incamerato 200 punti.
E così, leggendo qua e là, ho capito come è andata: l’Irlanda è un movimento piccolo e ancora oggi in certe zone il rugby è guardato di cattivo occhio perché è lo sport dei vecchi e spietati padroni inglesi che, oltre che affamare la gente, impedivano di giocare il calcio gaelico e l’hurling, eppure è diventata la più forte del mondo, quella in grado di calare nel reale le strategie disegnate da Joe Schmidt, che nel giro di pochi mesi prenderà il posto di Hansen, detto l’orso gentile. Come hanno fatto? Semplice, hanno puntato al meglio.
Leggo dell’Irlanda, guardo l’Irlanda e mi viene in mente la Ddr, piccolo paese, poca popolazione e una montagna di medaglie olimpiche, di record dl mondo. Trent’anni dopo la caduta del Muro, la vulgata tramanda: erano tutti dopati, c’era il doping di stato. Bene, vero, ma la cultura tecnica era profonda e il doping non fa correre gli asini, ma i cavalli. A parte queste ovvie considerazioni, esistono altre concretezze: molti anni fa riuscii a mettere le mani sui risultati dei campionati nazionali: nei 200, prima Marita Koch, seconda Barbel Wockel, terza una discreta, quarta una piuttosto scarsa. La Ddr badava alla qualità, curava una vetta tipo Himalaya. Lo sport lo facevano tutti, i contadini, i soldati, gli operai, i ragazzini. Lo sport di vertice, pochi.
Lasciando da parte le implicazioni politiche, spionistiche, chimiche, l’Irlanda sta facendo lo stesso nel rugby. Attenzione estrema, totale, del livello più alto, selezione accurata, individuazione dei 30-40 giocatori di livello assoluto, scelta con il bilancino degli equiparati-nazionalizzati (pochi ma buoni: Aki, Stander), programmazione degli impegni in forza della quale le quattro province o franchigie che dir si voglia non sempre possono contare sul gruppo dei Selezionati con l’iniziale maiuscola. È un gruppo d’élite, un reparto scelto che viene alimentato con un’attenzione da speziale e con, alle spalle, un sistema sportivo-educativo che oggi ha in Jakob Stockdale, detto Stockie, e in James Ryan simboli che si avvicinano alla perfezione.
In vent’anni gli irlandesi non hanno cavalcato un sogno inafferrabile, effimero, ma qualcosa di molto concreto. Vedi alla voce “risultati”. Vinceranno la Coppa del Mondo? L’ovalità del cristallo produce strane rifrazioni e non sono in grado di distinguere le immagini ma gli effluvi dei vapori magici sono molto verdi.
È cominciata la caccia agli All Blacks che avranno esaurito il loro compito storico dopo la Coppa del Mondo. Kieran Read andrà al Racing o in Inghilterra che, con i 200 milioni di sterline assicurati della Cvc, pronta ormai ad entrare nel tessuto della Premiership, farà rotta su Beauden Barrett, Ben Smith, Ryan Crotty. Il rugby ormai è una galassia lontana, una nebulosa. (di Giorgio Cimbrico)