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Comincia una nuova stagione e pare che il “bonus d’ingresso”, ovvero quell’insieme di curiosità e simpatia che il rugby italiano aveva saputo suscitare nei partner, nel pubblico, negli sponsor e nelle televisioni, al momento del suo ingresso “in società” (ricordatevi che la nostra “prima” a Twickenham è del 1996, idem l’esordio a Murrayfield), si sia esaurito tutto d’un colpo.
Dopo anni di incoraggiamento, ora tutti ci chiedono di dare prova della nostra capacità di competere, con la Nazionale e con i club.
È il passaggio difficile dall’adolescenza di un movimento alla sua maturità, dall’età della spensieratezza a quella della responsabilità e dei fatti.
Con la nomina di Daniele Pacini a responsabile del rugby di base, la Fir ha dato dimostrazione di aver individuato la prima parte del problema: dividere il “rugby per tutti” dal resto. Ora bisogna compiere il secondo passo: stabilire parametri e obiettivi per coloro che operano ad alto livello, commisurando le risorse alle competenze, ai risultati raggiunti, alle capacità dimostrate.
Perché quella che una volta è stata la forza del movimento italiano, un grande “volemose bene” che univa i dilettanti e i campioni, i professionisti (sia pure part time, o finti) e i volontari del dopo lavoro, oggi rischia di diventare il limite invalicabile di uno sport che per crescere richiede il coraggio delle scelte e la capacità di separare le abilità dalle inefficienze, i bravi dai somari.
Non è possibile, per esempio, che dopo sette anni di partecipazione italiana al PRO Rugby (12 o 14 che siano le squadre che vi partecipano) ancora non siano stati individuati ed espressi criteri trasparenti e insindacabili di valutazione del lavoro svolto, grazie ai quali distribuire le risorse, scegliere gli uomini e le formule della partecipazione. Semplifichiamo: quali target di risultati, di sviluppo di giocatori, di progetto, la Fir ha individuato in questi anni per la franchigie a ciascuna della quali ha versato negli ultimi tempi 4 (o più) milioni di euro a stagione? Forse è ora di stabilire parametri chiari per gli staff e per la gestione societaria: ove gli obiettivi vengono mancati, si riduce la quantità di denaro erogato (se la gestione è privata), si cambiano gli uomini al vertice (se la gestione è federale), si introducono play off (o play out) con le migliori del campionato, come è accaduto più volte in Sudafrica, e si offrono ad altri le chance che qualcuno ha sprecato. E ancora, il campionato di Eccellenza fa parte dell’alto livello o è un mostro bicefalo fatto per tenere insieme il tutto e il niente: chi vuole la lega e chi no, quelli che mettono i permit a disposizione e quelli che se li tengono stretti, chi vuole le selezioni per le coppe europee e chi vuole viaggiare in proprio, in un guazzabuglio di polemiche che è l’eterno immutabile del nostro rugby? E ancora: le accademie, il cui numero è stato recentemente ridotto, devono rispondere a criteri di efficienza, in relazione ai quali esse vengono mantenute o spostate, finanziate o penalizzate (numero dei giocatori promossi al PRO Rugby, in un certo arco di tempo, in base al territorio, alle squadre di riferimento e altro), o operano liberamente, come va, va? Sono tutte domande per le quali il rugby moderno esige risposte chiare e semplici. Forse è qui che Conor O’Shea, appena arrivato, ci chiedeva prima di tutto di cambiare: mentalità. Detto sottovoce: i ct della Nazionale, con tutti i loro difetti, sono gli unici che, ogni quattro anni, salutano e vanno via.

 

Gianluca Barca

 

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