La chiacchierata con Andrea Di Giandomenico, quarantun anni, da sette allenatore della Nazionale femminile di rugby comincia con una precisazione importante: “dico sempre e ci tengo a sottolinearlo – spiega – che sono l’allenatore della Nazionale femminile di rugby e non l’allenatore della Nazionale di rugby femminile. Il rugby femminile non esiste. Esiste il rugby ed è praticato dalle donne e dagli uomini. Questa, per me, è una premessa importante, anche a livello tecnico. Vuol dire che noi giochiamo a rugby, un rugby che ogni allenatore interpreta secondo le sue idee e il tipo di giocatori o giocatrici di cui dispone. Chi ha la mischia pesante farà giocare la sua squadra in un certo modo, chi ha i trequarti veloci in un altro, ma le differenze sono dettate dalle caratteristiche dei giocatori e delle giocatrici, non dal fatto che sono uomini o donne”.
Con le sue atlete Di Giandomenico nel Sei Nazioni di quest’anno ha vinto due partite, conquistando la qualificazione per i Mondiali del 2017 in Irlanda. Sarà la prima volta che le Azzurre parteciperanno alla Coppo del Mondo, un traguardo che per l’edizione del 2014 avevano mancato all’ultimo metro, perdendo contro la Spagna a Madrid (nel 2013), 7-38.
“La nostra forza, la nostra consapevolezza, sono nate proprio in occasione di quel passo falso – analizza il coach dell’Italia -. Si dice che le sconfitte servono per creare opportunità. Non è un modo di dire: noi siamo ripartiti da lì, da un’analisi dei nostri punti di forza e delle cose che dovevamo migliorare. Quella di Madrid era stata una brutta mazzata. Per un mese non ne ho voluto parlare. Ma poi l’anno scorso (2015, ndr) sono arrivate le tre vittorie nel Sei Nazioni e quest’anno la qualificazione ai Mondiali, nonostante le assenze delle Severin, l’addio della Gaudino (la storica capita delle Azzurre, ndr) e i molti infortuni ai quali abbiamo dovuto far fronte. Il messaggio è chiaro: c’è una squadra con vere leader, c’è una struttura che regge al di là delle individualità e permette nuovi inserimenti. C’è un gruppo che si basa su principi chiari: senso di appartenenza, sostegno, obiettivi comuni”.
Indichiamoli questi obiettivi.
“Il dato concreto, al di là delle soddisfazioni, dei complimenti, dei riconoscimenti che fanno sempre piacere, è che non abbiamo ancora vinto nulla. E quindi dobbiamo continuare a lavorare per crescere: quando ho cominciato, nell’estate del 2009, il traguardo erano i Mondiali del 2014, poi è diventato la Coppa del Mondo del 2017. Ogni anno per noi ha rappresentato una nuova sfida, un nuovo traguardo. Non c’è mai stato un momento di appagamento. I cicli prima o poi si chiudono ed è possibile che il mio si chiuderà nel 2017, ma intanto abbiamo davanti un anno e mezzo importante. Non andremo in Irlanda per partecipare: la qualificazione ai quarti è alla nostra portata e i prossimi mesi, il prossimo Sei Nazioni saranno in funzione di quell’obiettivo”.
Una vita sportiva votata alle donne. Com’è nata questa avventura?
Allenavo il Reggio Emilia, Franco Ascione mi propose di prendere in mano la Nazionale femminile, ero appena entrato in Fir e la sfida mi incuriosiva, mi stimolava. Non avevo esperienza con le ragazze. Dopo sette anni posso dire che siamo cresciuti insieme, io con loro e loro con me”.
E’ facile allenare una squadra femminile?
“Tanto per cominciare va detto che ragazze che scelgono di giocare a rugby, a maggior ragione in Italia, la motivazione ce l’hanno nel dna. Altrimenti avrebbero fatto un altro sport, un’altra cosa. Quindi si parte da una motivazione altissima. Atlete molto decise che quando sono messe in condizione di lavorare e di esprimersi secondo le loro possibilità diventano delle vere e proprie “macchine da guerra”. Il mio principio, l’ho detto all’inizio, è sempre stato quello di farle giocare a rugby, non di adattare il gioco alla categoria “donne”. Certo, per alcuni aspetti, le differenze con gli uomini esistono: la potenza è meno esplosiva, quindi esistono spazi e tempi, o frazioni di essi, un po’ più ampi, il che consente di provare un tipo di rugby con un po’ più di movimento, difese meno asfissianti. C’è meno la ricerca dello scontro diretto. Ma sono dettagli di cui qualunque allenatore tiene conto quando prepara una partita in relazione al materiale che ha e alle caratteristiche degli avversari. Adattare il rugby alle donne, perché sono tali, invece è un errore”.
Ci sarà qualche aspetto negativo, o è sempre tutto rose e fiori?
“Sinceramente di aspetti negativi non me ne vengono in mente. Le dinamiche sono quelle di qualsiasi gruppo. A volte, per provocarle, magari gli dico di non comportarsi “da donne”, o che giocano proprio “come femmine” ma lo faccio per scherzare, per tirare fuori il loro orgoglio. La verità è che il mio è comunque un ruolo privilegiato, perché lavoro con un gruppo di élite, con atlete che rappresentano il meglio del rugby italiano”.
Quanto è distante la Nazionale femminile dalle squadre dei paesi più forti?
“Rispetto a Francia e Inghilterra scontiamo un gap di numeri e di strutture, ma stiamo lavorando per colmare queste distanze. Nel ranking internazionale femminile l’Italia è ottava: è la prima delle squadre di seconda fascia. Secondo me siamo come la Nazionale di Coste e Mascioletti a metà degli anni Novanta: abbiamo un gruppo motivato, che ci ha permesso di agganciare l’alto livello, ma farne parte stabilmente è un’altra cosa. Dobbiamo vincere un Sei Nazioni, andare in semifinale di Mondiali…Oggi siamo come l’Italia di Grenoble del 1997, quella che nello stesso anno batté due volte l’Irlanda”.
Cosa ci manca per essere lì con le più forti?
“Il nostro livello complessivo è buono. Ci mancano però centimetri in altezza. Le seconde linee delle altre squadre spesso sono più alte di noi di tanto. Però abbiamo velocità che ci permette di restare agganciati alle partite”.
Soffriamo la concorrenza di altri sport, il volley, il basket per esempio?
“Certamente, il volley ha atlete di grande livello, ma anche il nuoto: ho visto Federica Pellegrini, sai che terza linea sarebbe…o che bel centro in mezzo al campo…”.
Quali sono le sfide che ci aspettano per migliorare ancora?
“Il dilemma più grosso che si pone davanti al rugby italiano, a livello femminile, in questo momento, è se allargare il numero delle squadre, e quindi delle atlete, o privilegiare il merito. Da tecnico vorrei un campionato di livello più elevato, ma mi rendo conto anche delle esigenze dei club che non possono accollarsi trasferte troppo lunghe…. Così nella prima fase ci sono sicuramente alcune disparità di livello, ma poi nella seconda si scontrano le migliori e cresce la competizione. Voglio sottolineare che sia a livello federale che di club c’è comunque una grande identità di vedute. Tutti remano nella stessa direzione. E c’è grande motivazione da parte di ogni soggetto”.
Nel suo curriculum Andrea Di Giandomenico ha anche un ruolo da formatore (è responsabile dell’Accademia –maschile – di Milano, quella ospitata al Leone XIII). Come si combina questa posizione con quella di allenatore di una Nazionale?
“Trovo che il lavoro con la Nazionale femminile sia molto stimolante anche da questo punto di vista, perché ti premette di fare un lavoro su due livelli e vedere subito l’applicazione agonistica, nel Sei Nazioni per esempio, di alcuni concetti di base che hai sperimentato con le ragazze in fase di formazione. E’ una grande ricchezza del movimento femminile quella di non separare troppo le due fasi. Le donne tra l’altro hanno la capacità di mettere grande attenzione in quello che fanno e percepiscono molto bene il lavoro che stai facendo per loro”.
Mai con gli uomini, dunque?
“Mah, sarei falso a dire che non mi piacerebbe un giorno lavorare con i ragazzi. Oggi ho la fortuna di preparare quelli dell’accademia, in passato sono stato in un club, il Reggio Emilia…un giorno forse potrei misurarmi anche con un livello superiore….”.