C’è talmente tanta carne al fuoco, dopo le prime due giornate del Sei Nazioni, che bisogna mettere un po’ d’ordine. O almeno provarci.
In questi giorni ognuno ha detto la sua sul ruolo dell’Italia, sulle ambizioni della Georgia, sul fatto che gli Azzurri, chiunque sia l’allenatore, non vanno da nessuna parte.
Stuart Barnes, per esempio, uno che ci vede come parvenu a un ballo a corte ha suggerito di creare una sola franchigia, di fatto la Nazionale, e fare giocare quella nel PRO12, come ha fatto nel Super Rugby l’Argentina con i Jaguares. La proposta è stata subito ripresa a casa nostra (mai che a noi venga un’idea originale…). Partiamo da qui.
Sette anni di partecipazione italiana al PRO12 hanno prodotto una tale sequenza di orrori organizzativi che ottenere risultati decenti sarebbe stato un miracolo.
Aironi e Zebre, oltre alle difficoltà societarie, hanno cambiato allenatore praticamente ogni anno: Bernini, Phillips, Gajan, Cavinato, Jimenez e De Marigny, Guidi, di nuovo Jimenez e De Marigny. Stessa cosa è avvenuta con il presidente (Melegari, Bernabò, Romanini, Pagliarini) e con il direttore sportivo (Tonni, Manghi, De Rossi). In tale instabilità è impossibile pensare di costruire una squadra che di suo aveva già il difetto della novità.
A Treviso, invece, diciamo la verità, la partecipazione al PRO12 è stata vista fin dal primo giorno come l’atto fondativo di un contropotere alternativo a quello federale, la nascita di una repubblica autonoma, o semiautonoma, dove fare le cose in modo diverso – finalmente – rispetto a Roma. Gli aggiustamenti via via apportati ai regolamenti, al fine di limitare questa indipendenza, hanno solo peggiorato le cose.
Veniamo alla proposta di Barnes. Prima dell’ammissione delle italiane al PRO12, l’accusa rivolta ai club italiani era di non essere abbastanza competitivi nelle coppe.
Nel 2005/2006, il Calvisano perdeva di 15/30 col Cardiff, il Treviso di 5/13 con i Saracens. Dieci anni dopo, con i migliori giocatori italiani (eccetto quattro o cinque) raggruppati nelle due franchigie, i risultati sono di molto peggiorati: la settimana scorsa il Treviso ha perso di 37 col Cardiff, le Zebre di 35 a Llanelli. Due mezze nazionali perdono più o meno come la Nazionale maggiore. Dove sta scritto che, portando in una sola squadra lo stesso spirito, i risultati miglioreranno? Due zoppi non fanno un buon corridore. Prima, le partecipanti italiane alle coppe erano sei, poi con il PRO12 sono diventate due, acquisendo i giocatori migliori di tutto il movimento. I risultati sono peggiorati. Una sola sarebbe migliore?
In più, chi parla di “fare come i Jaguares” non sa cosa dice.
Nel Super Rugby, chi come la franchigia argentina non raggiunge i play off, gioca 15 partite in tutto, tredici delle quali nell’arco di quattro mesi (febbraio-maggio), più una in giugno e una in luglio. Nessuna di queste partite coincide con i Test match internazionali. Di conseguenza bastano rose di 35/38 giocatori, gli altri salutano e se ne vanno all’estero (Brex, Novillo, Paz).
La stagione europea (test match di autunno, Sei Nazioni, Pro12 e Coppe) si articola su nove mesi e almeno 35 partite, ovvero 20 in più rispetto al Super Rugby.
Con una sola franchigia, ovvero la Nazionale mascherata, servirebbe pertanto una rosa di almeno 55 giocatori perché durante i test di autunno e il Sei Nazioni, 30 si trasferirebbero automaticamente in azzurro.
Vorrebbe dire: A) disporre di uno staff di almeno 20 persone, altrimenti come li prepari 55 giocatori? B) cosa farebbero i 29 (ventinove) regolarmente esclusi dal foglio gara? Il turnover significherebbe, per qualcuno, non giocare più di una partita al mese, se va bene. Siamo sicuri che sarebbe la strada giusta?
Certo anche il PRO12 guarda al domani, la proposta di dividersi in due gironi e inglobare due squadre americane (una americana e una canadese) potrebbe ridurre il torneo a una quindicina di partite, sette in meno rispetto alle attuali. Ma qui si entra in una serie di modifiche che non riguardano più solo noi.
Infine la Georgia: i georgiani giustamente spingono per uscire dalla gabbia del Sei Nazioni B dove li relega, nonostante i risultati, il formato del rugby di livello internazionale. Noi faremmo lo stesso, al posto loro. Ma detto onestamente: dove stanno i grandi risultati ottenuto dai Lelos per reclamare un posto nel rugby che conta? Al di là delle vittorie su Samoa (20-16), Tonga (22-20) e Fiji (14-3) i georgiani non si sono avvicinati ancora nel punteggio a nessuno squadra che conta (16-43 con la Scozia, 7-49 con l’Irlanda, 10 -43 con gli All Blacks alla Coppa del Mondo, 17-16 con la Namibia, 10-17 con Tonga).
È giusto che la Georgia voglia affrontare più spesso le grandi, ma qui si tratta di riformare l’intero rugby di alto livello, oppure di scrivere l’atto di morte del Sei Nazioni per trasformalo in una Coppa Europa, con qualificazioni, gironi preliminari etc. Non è un fatto che riguarda l’Italia.
In questo dibattito noi ci mettiamo del nostro con risultati che è difficile giustificare mentre i georgiani aggiungono il carico dei soldi: l’ex primo ministro Bidzina Ivanishvili è stimato (Forbes) avere un patrimonio di 4,5 miliardi di dollari ed è un appassionato di rugby. Un Berlusconi votato alla palla ovale. “Diteci quanto dobbiamo pagare per entrare – dicono – con i modi un po’ cafoni dei nuovi ricchi – e faremo in nostri conti…”.
Certo da noi, oggi come oggi, nemmeno la situazione economica è più tanto florida. Treviso e Zebre assorbono un quarto del budget federale, i club sono gestiti in gran parte da volontari e sono a livello di staff fortemente sottodimensionati. Alcune delle accademie dovranno essere chiuse per fare quadrare i conti.
La prima urgenza è rendere efficaci i progetti delle due franchigie, in modo che i risultati migliorino, i giocatori che vi approdano crescano e la Nazionale benefici di questo rapporto costruttivi ed efficace.
Questo si può chiedere a O’Shea di fare immediatamente: un processo di razionalizzazione dall’alto, con tecnici di sua fiducia, monitoraggio degli atleti e programmi condivisi, almeno per quanto riguarda il PRO12. Al progetto dal basso dovrebbe pensare Aboud, con la disponibilità e il coinvolgimento dei club. Perché dei talenti che produciamo (pochi) non se ne può sprecare nemmeno uno. Poi, a un certo punto, le due strade dovrebbero incontrarsi nel mezzo…Ma è un cammino lungo da affrontare.
(La foto è di Fotosportit)