Nelle scorse settimane, la Fifa ha esteso a 48 squadre (a partire dal 2026) la partecipazione alla fase finale della Coppa del Mondo di calcio. Fino al 1978 a prendere parte al Mondiale erano 16 nazioni, poi diventate 24 (dal 1982) e infine 32 (dal 1998).
Il football, periodicamente, allarga i suoi confini. Motivi, soprattutto, di ordine economico, mascherati da democrazia.
Il rugby invece era partito con 16 squadre (1987) e dal 1999 si è allargato a 20. Potrà mai la palla ovale includerne di più?
È questo uno dei grandi temi che World Rugby, l’ente gestore del gioco a livello internazionale, ha davanti a sé. Le caratteristiche del gioco a XV, in questo momento, non permettono di aggiungere alle 20 attuali nemmeno quattro squadre in più, figuriamoci portarle al doppio, sarebbe una follia. Lo impedisce l’incolumità stessa dei giocatori, oltre che l’equilibrio della competizione: nel calcio la squadra numero 48 è l’Arabia Saudita, ma solo un posto più avanti (47) c’è la Danimarca, che nel 1992 è stata campione d’Europa e nel 1998, ai Mondiali, perse 2-3 con il Brasile di Ronaldo nei quarti di finale.
Nel rugby la squadra numero 48 è la Tunisia, impensabile poterla mettere di fronte all’Inghilterra, al Sudafrica, all’Australia, agli All Blacks. World Rugby ha optato di allargare la propria base attraverso il Seven, dal 2016 disciplina olimpica: meno giocatori, niente rischi in mischia, insomma una versione del rugby un po’ più soft.
Ora davanti al “XV” stanno alcune scelte fondamentali: accettare di rimanere una versione del gioco d’élite, limitata (esageriamo) a una ventina di paesi (quelli veramente competitivi in realtà non sono più di 10/15), oppure trovare una strada per diventare veramente globale. Questa però non può prescindere da una messa in discussone di regolamenti e filosofia del gioco stesso: finché si continuerà a privilegiare il gioco d’attacco, a favorire l’estro e la velocità dei più forti, per le altre nazioni, comprese quelle immediatamente a ridosso delle migliori, competere alla pari con le grandi sarà molto, molto difficile. Il calcio, tutto sommato, consente al più debole di difendersi per novanta minuti. Il rugby moderno non lo permette quasi più. Il gioco del terzo millennio richiede spettacolo e velocità. Ma se tutto ciò è alla portata di poche, o pochissime nazioni, la questione diventa decisiva per il futuro: che fare?
In Italia, nel frattempo, c’è un altro “che fare?” a tenere banco in queste settimane: che fare di due franchigie i cui risultati stanno diventando la zavorra di tutto il movimento? Le Zebre hanno perso per strada anche l’allenatore. Il Treviso, in coppa, ha concesso, in casa, 41 punti (a zero) al Gloucester, squadra che nella Premiership occupa l’ottavo posto e che in media realizza una ventina di punti a partita. A La Rochelle, gli inglesi, prima di Natale, avevano perso 42-13. Non un’armata invincibile dunque.
Al netto degli alibi (che ci possono sempre essere), delle difficoltà societarie (vale soprattutto per le Zebre), del cattivo management (idem), dei soldi e di tutto il resto, continuiamo a credere che il rugby sia soprattutto uno sport di uomini che sul campo si battono al massimo e lottano per essere i migliori. Abbiamo tante scuse e tanti difetti, non c’è discussione. Ma la volontà di battersi, siamo sicuri ci sia sempre? Chiamatelo talento, chiamatela cultura. Sorge il dubbio che altri quella voglia ce l’abbiano innata e noi no.