Con questa intervista Mike Catt si è presentato lo scorso autunno ai lettori di Allrugby. La riproponiamo qui, alla viglia del primo Sei Nazioni in cui l’Italia sarà guidata dal nuovo staff.
di Gianluca Barca
È stato osannato e fischiato, calpestato e premiato. Ma a 45 anni, compiuti lo scorso 17 settembre, Mike Catt resta ottimista e positivo. Anche ora che allena l’Italia, una squadra che negli ultimi quindici anni ha vinto una partita su quattro, molte meno se contiamo solo il Sei Nazioni.
Ha scelto di vivere a Colognola ai Colli, in provincia di Verona, dove le due bambine frequentano la scuola internazionale. La figlia più grande, Evie, quattrodici anni, è rimasta invece a studiare in Gran Bretagna (“ma ci sono abbastanza vacanze perché possa venire spesso a trovarci”, spiega l’ex giocatore di Inghilterra, Bath e London Irish).
Confessa di conoscere poco dell’Italia: “non c’ero mai stato – ammette -, se non al Flaminio, da giocatore, e all’Olimpico da allenatore. Mi sembra tutto bello, abbiamo tutto quello che ci serve. E io sono “very adaptable”, mi abituo facilmente a tutto”
Nato e cresciuto in Sudafrica, dove ha trascorso i primi vent’anni, oggi dice di essere “inglese” anche se l’accento rivela ancora qualche influenza straniera.
In Inghilterra, il paese della mamma Anne, arrivò nel 1991, a vent’anni, zaino in spalla. A Port Elizabeth aveva giocato a rugby con la squadra di Eastern Province, ma soprattutto aveva assorbito la cultura di una nazione dove a scuola si fa attività sportiva almeno due ore al giorno e ogni studente deve scegliere ogni semestre due discipline: due estive e due invernali.
“Lo sport ha una forza e un potere eccezionali – osserva – in Sudafrica lo impari ogni giorno. È un’occasione di inclusione, se vai male in qualche materia accademica puoi riscattarti sul campo, far valere le tue doti e il tuo carattere nel gioco. E quando vinci capisci quanto vincere è bello, che emozione ti dà, e quindi raddoppi gli sforzi per vincere ancora”.
Il viaggio da “back packer” del ventenne Mike si ferma un giorno dalle parti di Gloucester dove abita lo zio. “Gli dissi: non c’è una squadra di rugby dove potrei andare a giocare? Facemmo un paio di telefonate e finii al Bath dove in quattro mesi arrivai dalla terza alla prima squadra. All’epoca il Bath era una formazione eccezionale, ci giocava gente come De Glanville, Guscott, Stuart Barnes, Ben Clarke, c’erano “internazionali” anche in seconda squadra, Ojomoh, Adebayo… Ho imparato più in quei quattro mesi che nei precedenti dieci anni”.
Siamo nel 1992 e il rugby è ancora uno sport amatoriale: “lavoravo, mi allenavo e speravo che un giorno anche noi potessimo diventare professionisti – racconta -. A un certo punto lavoravo la notte in una tipografia e all’alba consegnavamo i giornali alla distribuzione. È stato il momento in cui sono arrivato più vicino al mondo del giornalismo…”, scherza.
Nel frattempo era arrivata la prima convocazione in Nazionale, contro il Galles, nel 1994, poi i Mondiali in Sudafrica, quelli in cui Lomu gli passeggiò sopra per andare a segnare una delle sue famose quattro mete del match (“un gesto che mi diede la piena notorietà internazionale, ovviamente per le ragioni opposte a quelle che uno vorrebbe…”). Con Jack Rowell, Mike Catt, tra il 1994 e il 1997 gioca praticamente sempre titolare, apertura o estremo. E Clive Woodward, quando assume la guida della squadra, lo conferma a numero 10. Ma sono anni difficili per l’Inghilterra: a Old Trafford gli All Blacks vincono 25-8, dopo che Mike ha sbagliato tre piazzati facili, e la settimana successiva il Sudafrica vince a Twickenham 29-11. Il pubblico e la critica non sono teneri.
L’anno dopo è l’Australia a battere gli inglesi nella fortezza di casa, 12-11: Guscott segna una meta spettacolare, ma Catt manca la trasformazione e sul 9-11, John Eales realizza la punizione della vittoria per i Wallabies. Si sprecano i fischi e cresce la delusione.
“Ho avuto un sacco di “ups and downs” – dice il nuovo coach degli Azzurri -, mi hanno criticato e fischiato, ho perso il posto in Nazionale e poi sono stato richiamato. ho vinto molto e rischiato la retrocessione, come tutti ho avuto le mie delusioni. Quando le cose erano difficili, l’unico aspetto su cui valeva la pena concentrarsi era quello del campo. Ci stavo più che potevo, da solo, o con qualche compagno. Era l’unico modo per evitare di farsi assorbire da tutto quello che girava intorno.
Ancora oggi dico: datemi un pallone, un campo, qualche giocatore e sarò un uomo felice. Il rugby è uno sport semplice e ognuno può essere meglio di quello che è. Bisogna solo creare le condizioni perché possa esprimersi al massimo. Ma ci vuole tempo. Niente accade dalla mattina alla sera. Woodward ci mise cinque partite per vincere la sua prima da allenatore della Nazionale, poi nel 1999 fummo eliminati in Coppa del Mondo dai cinque drop di Jannie De Beer. Sei mesi prima avevamo perso il Grand Slam, battuti a Wembley dalla meta di Scott Gibbs, e nel 2000 successe la stessa cosa contro la Scozia, mentre nel 2001 perdemmo l’ultima partita a Dublino contro l’Irlanda (Fu allora che la stampa definì la squadra di Woodward “the biggest chokers in the game” – quelli che si fanno andare di traverso il boccone più gustoso della cena -, ndr). Sono tutte tappe di un processo di crescita, senza le quali è molto difficile costruire una squadra di successo. Alla fine, tra 2002 e il 2004 vincemmo 24 partite su 25, compresa la Coppa del mondo in Australia, perdendo solo un match di preparazione estiva contro la Francia”.
Quali furono i grandi meriti di Woodward?
“Avere un gruppo di giocatori eccezionali – scherza Catt -. Ma lui fu bravo a creare un ambiente dove non erano ammesse scuse, tutto era programmato e studiato per poter vincere. Il gruppo era molti unito, stavamo bene insieme e non vedevamo l’ora di ritrovarci”.
Anche con Woodward?
“Beh lui era il boss, lavorava per creare il contesto giusto perché noi potessimo esprimerci al meglio. Ma non c’è una ricetta che dice come deve essere il boss ideale, se “ruvido” e diretto, o tranquillo e fantasioso. Ce ne sono che hanno successo pur essendo totalmente pazzi. L’unica cosa che conta, veramente, per me è il tempo. E che tutti lavorino insieme, con un obiettivo comune”.
Catt, O’Shea, Aboud: intorno al vostro ingaggio si sono create molte aspettative. Ma il nostro resta un movimento debole, su cosa vi dovremo giudicare?
“Questo dovrete dircelo voi! E’ chiaro che il bilancio di un’attività sportiva dipende sempre dai risultati: vincere è l’obiettivo di tutti. Io sono qui da troppo poco tempo per avere un’idea globale sul rugby italiano. Posso dire che in tournee ho visto un gruppo con molte doti, passione, buona volontà e ottime potenzialità fisiche. Ci si può lavorare. Il mio obiettivo è fare in modo che ognuno possa dare il massimo e migliorare. Come? È un processo lungo e ci vuole tempo. Prendete gli All Blacks: sono sempre stati una delle squadre più forti, ma dopo il 1987 ci hanno messo quasi venticinque anni per tornare a vincere. Hanno patito la delusione del 2007 ma hanno confermato Graham Henry e Richie Mc Caw e Carter…e poi, dopo il 2011, hanno promosso Steve Hansen che aveva lavorato a lungo nel gruppo. E adesso tutti dicono che sono invincibili”.
C’è un segreto, dietro a questi successi?
“Il segreto, ammesso che sia tale, è che tutto il paese, tutte le sue strutture sportive vanno nella stessa direzione. Tutti le squadre e tutti club giocano con lo stesso stile. In più i neozelandesi, anche con l’apporto degli isolani, sono fisicamente di un’altra categoria rispetto al resto del mondo. E questo fa sì che a quindici, sedici, diciassette anni si possano dedicare quasi completamente al gioco con la palla, senza spendere un solo minuto in palestra, mentre in Europa spesso accade l’opposto. Il tempo speso sul campo, ogni singolo minuto della loro adolescenza, significa maggiori abilità con la palla in mano, più competenza tecnica e tattica. Ciononostante, anche loro hanno dovuto passare attraverso un meccanismo di crescita piuttosto lungo per diventare vincenti nel rugby professionistico”.
Con Lancaster, Rowntree e Farrell, Mike Catt ha fatto parte dello staff inglese alla scorsa Coppa del Mondo, quella che ha visto i padroni di casa fuori al primo turno.
Vi ha sorpreso vedere in quanto poco tempo Eddie Jones abbia saputo invertire la tendenza?
“Nient’affatto, c’era un processo di crescita in corso e sapevo che prima o poi i frutti sarebbero arrivati. Le sconfitte del 2013 in Galles o del 2014 contro la Francia facevano il paio esattamente con quella del 1999 in Galles, o quelle successive in Scozia e in Irlanda. Sapevo perfettamente che sarebbe stata solo questione di tempo prima che i risultati cominciassero a premiare il lavoro svolto”.
Cosa pensi di poter offrire all’Italia, sulla base delle esperienze avute da tecnico e da giocatore in Inghilterra?
“Tanta passione, tanta voglia e il desiderio di mettere a disposizione degli altri le mie conoscenze. Spiegare cose vuol dire essere professionisti, non tutti lo hanno chiaro in testa, in Italia e altrove. E siccome ho avuto la fortuna di sollevare qualche coppa e di alzare qualche trofeo, ho anche imparato che il bello di quelle vittorie è il viaggio che le precede, più del momento del trionfo. Il percorso è meglio della linea del traguardo. Quindi lavoro e studio per portare novità, creare un ambiente che incuriosisca e invogli i ragazzi a dare il massimo. Ogni allenamento deve essere per loro un’occasione per misurarsi con qualcosa di nuovo di stimolante, per crescere”.
Sarà sufficiente?
“Forse no, non sempre. Ma il bello dello sport è che dopo un week end ce n’è sempre un altro, poi un altro e un altro ancora. Ogni settimana si può provare a fare meglio di quella precedente. Ma c’è una cosa che dico sempre ai giocatori ed è di guadarsi nello specchio e chiedersi come li vedono il pubblico e i tifosi. Percepiscono che avete dato il massimo, che avete fatto in campo tutto quello che potevate? Allora siete sulla buona strada. A chi guarda piace vedere l’impegno e l’aggressività che ci mette uno come Favaro…no?
Però dobbiamo parlare anche del percorso che porta a questa capacità di dare tutto: Zebre e Treviso aiutano questa crescita?
“Non sono qui da abbastanza tempo per dare un giudizio. Dico che giocare con i migliori aiuta a crescere, per me al Bath è stato così…”
Allora bisognerebbe portare in Italia i giocatori più forti!
“Ma di quelli ce ne sono pochi e non vengono, questo è il problema”.
L’anno scorso alle Zebre era arrivato Muliaina, ma il suo rendimento non era più quello di un All Black, era infortunato e ha giocato molto poco…
“Dipende allora perché era stato preso. Se era per segnare tre mete a partita probabilmente non poteva funzionare. Bisognava magari rubargli un po’ di segreti e metterlo in condizione di lavorare con i giovani, fare in modo che spiegasse certe dinamiche e certe situazioni che si possono vivere indossando cento volte la maglia della Nuova Zelanda, ma io non c’ero e non so come siano andate le cose. Non posso dare un’opinione”.
Per concludere: che impressione vi fanno i cento campanili d’Italia e il fatto che in tanti guardino con invida alle vostre posizioni e a quelle dei pochi colleghi che in Italia possono vivere di rugby?
“La concorrenza e la competizione fanno parte del gioco, è così in tutto il mondo. Quando giocavo, sapevo che, se perdevo il posto in Nazionale a vantaggio di Will Greenwood, ci avrei messo sei mesi, o forse un anno, a riprendermi quella maglia. E Will sapeva che sarebbe stato lo stesso per lui. Bisogna solo raddoppiare le forze e cercare di esser più bravi dei propri avversari. La concorrenza deve far migliorare non deve creare paura”.