Dopo l’ennesimo trionfo neozelandese (42-8 sull’Australia in trasferta, nella prima partita del Championship 2016 – sei mete a una – la più pesante sconfitta della storia dei Wallabies in casa contro i rivali in maglia nera ) proponiamo l’intervista fatta dopo i Mondiali a Neil Sorensen, General Manager Professional and Community rugby della New Zealand Rugby Union (NZRU)
di Federico Meda
«Il predominio All Blacks nel rugby si spiega con parole molto semplici: pianificazione su base quadriennale, investimenti mirati, senso di appartenenza, obiettivi comuni, allargamento della base. Perché dovrebbe essere più complicato?». A parlare è Neil Sorensen, General Manager Professional and Community rugby della New Zealand Rugby Union (NZRU), un passato da apertura a Wellington, capitano dei Junior All Blacks (di fatto la seconda Nazionale del paese), trials ma senza cap con la Nuova Zelanda. Persona affabile, tranquilla, capace di capitanare i due team di lavoro che fanno capo al mondo professionistico e a quello amatoriale: «Gestisco le varie strategie, mi confronto con il board federale, rimuovo ostacoli, sblocco budget, aiuto lo sviluppo delle singole aree». Anche qui, niente trucchi, ma un disarmante segreto: «Ho due team di lavoro eccezionali, per questo arrivano i risultati».
Capire cosa si nasconde dietro questo XV capace di vincere il 78% delle partite giocate (percentuale che sale all’84% dall’avvento del professionismo e al 94% nell’ultimo quadriennio) significa studiarne la storia, valutare l’autostima di un popolo e il suo ruolo all’interno dell’Impero di sua Maestà fin dal del regno di Edoardo VII. La Nuova Zelanda ha sempre sofferto l’emarginazione dettata dal mare e dalla distanza con Londra, accorciatasi nel corso del Novecento, secondo sir Graham Henry, «grazie al nostro impegno nelle due guerre mondiali e a come ci comportiamo sul campo da rugby». Perché gli Originals, con quel famoso Tour del 1905, hanno sancito il ruolo del Paese all’interno dell’Impero, trasformando un gioco molto apprezzato in sport nazionale. «Nonostante questo – puntualizza Sorensen – tanti sport da noi sono più praticati del rugby. Pensate solo al golf o alla vela. Solo il 3,4% dei neozelandesi gioca a rugby». Abbiamo provato a fare lo stesso calcolo per l’Italia: da noi questo dato oscilla tra lo 0,15 e lo 0,20%.
Coach e non solo
Non pensate la nostra realtà sia loro sconosciuta: «A voi manca il cosiddetto common goal – analizza Neil -, sono sicuro che la vostra federazioni, per fare un esempio, non ha mandato il coach del Treviso ai Mondiali in Inghilterra ad assistere a una selezione di partite, con l’obbiettivo di raccogliere dati e considerazioni da elaborare una volta tornato a casa. Ecco, i nostri allenatori del Super Rugby l’hanno fatto tutti, perché devono condividere con noi ogni cosa che succede intorno alla palla ovale». Forse Sorensen non ha tenuto contro che durante la Coppa del Mondo, in Europa si giocava il Pro12, mentre il Super Rugby era in vacanza…ma l’esempio insomma rende l’idea. La formazione dei coach, dall’altra parte del mondo, è una pietra angolare del sistema All Black: esistono scout per riconoscere a livello provinciale chi potrebbe diventare un allenatore di primo livello; i migliori “studenti” sono mandati in giro a fare stage e workshop presso club di altre discipline, a incontrare personalità del mondo sportivo che possano raccontare vita morte e miracoli della loro esperienza passata; il percorso di formazione è poi strettamente individuale e non esistono scorciatoie, anzi: «uno come Tana Umaga, per esempio, merita più attenzioni di un coach partito dal minirugby. Perché non ha mai insegnato in vita sua e di conseguenza bisogna partire dalle basi: “che tono usi per spiegare un errore? Come insegneresti a passare, con quali esercizi?”. Eccetera. Pur essendo più impegnativo, sappiamo che un Umaga, una volta coach, può dare qualcosa in più di un bravissimo allenatore la cui esperienza ad alto livello è insignificante». E se è importantissimo formare allenatori (solo di livello Super Rugby ce ne sono in 55: «ogni franchise ne ha 3-4, più la Nazionale, i settori giovanili, come potrebbero essere meno?»), è altrettanto fondamentale gestire il contorno o, brutalmente, l’indotto. «Prendiamo Richie McCaw – spiega Sorensen – ha iniziato a 5 anni ed è diventato professionista a 20. In questi tre lustri è entrato in contatto con centinaia di persone. Allenatori, certo, ma anche medici, nutrizionisti, magazzinieri, mamme, zie, sorelle, fratelli. Tutta gente che ha contribuito allo suo sviluppo. Sportivo, umano, caratteriale. Questo è il Community Rugby (che noi abbiamo ribattezzato The New Zealand’s biggest team), quello che una volta conosciuto non ti molla più. Il nostro obiettivo a livello professionistico è vincere. A livello amatoriale è coinvolgere più persone possibile. In questo modo costruiamo una base capace di trasmettere il gioco, la passione e contribuire alla causa e portare i propri figli a giocare a rugby». Un aneddoto per capirne di più: Kevin Barrett, padre di Beauden ma anche di altri tre giocatori di alto livello, ha giocato a Taranaki e negli Hurricanes in epoca amatoriale («ma pur sempre davanti a 20mila persone: un’esperienza magnifica»), parallelamente alla sua attività di farmer nell’azienda ereditata dal padre. Ai suoi figli (femmine comprese) e a quelli dei vicini di casa, ha insegnato fin da piccoli «a calciare con entrambi i piedi, passare in entrambe le direzioni e essere in grado di leggere il gioco». Affermazione che ha spinto Andy Bull, giornalista del Guardian che lo stava intervistando, a considerare che in Inghilterra solo un trequarti di grande talento è in grado di fare altrettanto. E non in giovane età, ma nel pieno della carriera. «La posizione è solo una questione di dimensioni, tutti i giocatori devono avere lo stesso set of skills “, chiosava babbo Barrett. Effettivamente i programmi di formazione prevedono fino a 8 anni solo catch-pass-run (prese, passaggio e corsa), a seguire vengono i primi placcaggi e l’introduzione delle fasi statiche “no contest”. Solo verso gli 11 anni si inizia a giocare 15 contro 15 e a contestare mischie e rimesse laterali. Sempre nell’articolo di Andy Bull si citava un’interessante considerazione di John Daniell, kiwi ex Racing, Perpignan e Montepellier: «la differenza tra il rugby in Nuova Zelanda e in Europa è il tempo speso a fare catching and passing a livello giovanile». Effettivamente certe partite gli All Blacks le hanno vinte grazie alla perfezione assoluta del loro gioco alla mano. Pensate all’Irlanda nel 2013 e quella meta nei minuti finali che negò ai verdi la prima storica vittoria contro i tuttineri: i passaggi consecutivi perfettamente riusciti furono 25.
Formazione e difficoltà
Anche gli All Blacks hanno problemi: a livello di U13 i praticanti sono oltre 80.000, durante l’adolescenza scendono a 44.000 e da adulti il dato si attesta intorno ai 28.000. «Il cambio di scuola è storicamente complicato e il drop off è molto alto, soprattutto quando si va all’Università o si entra nel mondo del lavoro. Per questo noi proponiamo differenti modalità di fruizione del rugby: tornei divisi per categorie di peso (Weight graded rugby), su base etnica, Seven e poi la novità del quick rip rugby, also known as “Rippa rugby”. Si tratta di un’evoluzione del “touch”: ogni giocatore ha tue laccetti attaccati con il velcro all’altezza dell’elastico dei pantaloncini, a destra e sinistra. Non c’è contatto, si può solo privare l’avversario dei laccetti. Per il resto è rugby, con mischie no contest e vere e proprie rimesse laterali. Permette a chiunque di accedere al gioco. Lo stiamo anche esportando, perché a livello scolastico funziona particolarmente bene e ogni anno organizziamo un torneo internazionale qui a Wellington», dice Sorensen. Non solo nuove forme di gioco, anche le regole possono limitare il drop off, l’abbandono: «Non senza difficoltà, a livello di U15 abbiamo introdotto l’Half time rule (che impone di far giocare tutti i ragazzi in lista almeno un tempo a partita). Non sempre i coach ci danno ragione, è anche comprensibile, ma i risultati sì. Quindi continuiamo in questa direzione perché – mi ripeto – è importante allargare la base dei praticanti e degli innamorati del rugby. E questo avviene solo giocando e apprezzando l’ambiente intorno ad esso. A quell’età non puoi stare in panchina». Stupisce in un rugby muscolare come quello moderno la sopravvivenza di tornei con categorie di peso (che vengono mantenute anche a livello seniores: ci sono club che propongono il team under 80kg, ndr) o per gruppi etnici: a prima vista sembra una forma di ghettizzazione. In realtà è propedeutico all’inclusione, come ci spiega Neil: «L’immigrazione neozelandese ha visto negli ultimi anni arrivare tante persone dalla Cina, dalla Corea, dall’India (entro il 2021 rappresenteranno il 30% dell’area di Auckland, la più popolosa del Paese). Tutta gente che ha caratteristiche fisiche molto diverse dal ceppo europeo, dai maori e da tutto il bacino polinesiano. Perché mettere contro un Sonny Bill e un piccolo, esile asiatico? Lasciamoli innamorare del rugby e della cultura del rugby neozelandese, diventeranno in breve tempo una risorsa e un elemento di arricchimento per il gioco. Ricordo ai tempi di mio padre, si parlava dell’eventualità che, di lì a trent’anni, la maggior parte del XV degli All Blacks sarebbe stata di origine polinesiana. Si rideva di questa previsione. Durante la RWC inglese il 40% arrivava dalle isole. È legittimo pensare che fra 20 o 30 anni questa percentuale sia coperta dagli asiatici di seconda generazione. Sarà una bella sfida aggiornarci a questo nuovo shake multiculturale».
Better people, better All Blacks
Un altro caposaldo della formazione kiwi è certamente l’educazione. Essendo lo sviluppo dei giocatori in mano alle scuole e al prestigioso “First XV” – due partite a week-end di questo campionato fra università viene trasmesso live in televisione, ndr – sono gli stessi dirigenti e insegnanti a gestire il talento in erba dei futuri All Blacks, lasciando fuori i ragazzi in caso di cattivo rendimento scolastico. «È importante formare good people – ci dice Neil – perché l’atteggiamento fuori dal campo si riflette in campo e viceversa. Noi vogliamo formare uomini, non solo atleti perché devono essere l’esempio migliore per chi è a casa, per chi vuole portare i figli a giocare, per gli investitori». Infatti la politica dei contratti con la Federazione si basa proprio su questo: gli All Blacks devono rimanere in Nuova Zelanda perché devono essere in contatto con la base, per coaching sessions, attività di charity e promozione, «ma anche per farsi vedere al supermercato, nelle strade, in un bar: è molto importante questo per il nostro movimento». Certo che i soldi e l’Europa attirano, l’esempio di Giteau e Mitchell è proprio dietro l’angolo, oltre il Mare di Tasmania: «Essere All Black significa appartenere al XV più vincente della storia dello sport. Essere seguiti dai migliori allenatori, da uno staff incredibile. Permette di raggiungere livelli di gioco assoluti, personali e di squadra. Siamo convinti della strada che abbiamo intrapreso: l’environment è ciò che conta, i soldi vengono dopo».
Le accademie e il futuro
Abbiamo chiesto a Neil come funzionano le accademie in Nuova Zelanda, ricevendo risposte molto compassate: «Well, l’Academy system è un sistema molto raffinato. Trovo sia molto buono ed efficace. Si sviluppa su un arco di due anni, ne abbiamo 14 sparse per il Paese e garantiscono, ognuna, a una quindicina di giocatori un supporto ulteriore per prepararsi alla vita da professionista». Ora appare ben oliato ma in principio questo meccanismo ha generato critiche, gelosie, ingerenze dei club? «Che io sappia no».
Finiamo la chiacchierata con una raffica di domande: si può quantificare il gap tra All Blacks e il resto del mondo?: «Non penso esista davvero, il Mondiale è stato durissimo, come lo sarà battere l’Irlanda nel 2016»; Quando è avvenuta questa svolta che ha reso la squadra più forte e famosa che mai? «Non c’è un momento, è un flusso: noi siamo piccoli, pochi e più concentrati sul territorio rispetto a voi Europei. Siamo, semplicemente, molto fortunati e alziamo continuamente l’asticella dei nostri obiettivi»; Non trova l’haka ormai parte di un mainstream in salsa ovale? In Italia l’hanno utilizzata perfino per una trasmissione di calcio: «Non penso sia criticabile la diffusione a più livelli dell’haka. In fondo è un modo per veicolare il rugby e il nome della Nuova Zelanda. Sinceramente non diamo molto peso a queste cose. E poi, detto fra noi, cosa potremmo fare per evitare che avvenga?».
Fonti: (Espnscrum, NZRU, The Guardian , Bloomberg)
Nella foto di Brendon Thorne/Getty Images, la meta di Waisake Naholo che sfugge a Israel Folau.