Joël Jutge, francese, 50 anni, è il nuovo responsabile degli arbitri dell’EPCR, l’organismo che governa le coppe europee di club. Jutge è stato fino alla fine dello scorso aprile responsabile degli arbitri di World Rugby. Allrugby lo ha intervistato poco prima della fine del suo mandato alla testa della federazione internazionale.
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Negli ultimi quattro anni Joël Jutge è stato fino all’aprile scorso uno dei personaggi più importanti e più influenti del rugby internazionale: “World Rugby High Performance Match Official Manager”, in pratica il capo mondiale degli arbitri.
“Sono stato fortunato a poter ricoprire un incarico così importante – dice -, ma questo è un lavoro per single – scherza -, troppi impegni, troppi viaggi, troppo tempo lontano da casa, non è possibile condividerlo con una famiglia. E poi il formato del rugby non ti dà tregua: quando finisce la stagione nell’emisfero nord, comincia quella nelle nazioni del sud. E giugno è un mese bellissimo per andare in vacanza in Francia o in Italia…”.
Insomma per l’uomo che nell’ultimo quadriennio è stato al vertice di ogni decisione che riguardasse gli arbitri e le loro scelte, siamo al momento dei bilanci e dei titoli di coda.
“Posso lasciare con serenità, abbiamo raggiunto quelli che erano gli obiettivi. La Coppa del Mondo è stata un grande risultato sui due piani che c’eravamo proposti: le performance sul campo e le relazioni fra tutti i giudici di gara”.
Ci può chiarire meglio questi due punti?
“Ogni cambio delle regole, ogni sforzo di interpretazione, ogni decisione arbitrale, per noi, deve poggiare su tre concetti fondamentali: sicurezza degli atleti in campo, continuità del gioco, equità. Inoltre, arbitrare diventa sempre più difficile, ci sono moltissime telecamere, ormai, che riprendono il gioco da ogni angolo. Un arbitro da solo non può vedere tutto, mentre a casa gli spettatori hanno una visione del gioco privilegiata. Per questo serve sempre più che il giudice di gara sia coadiuvato dagli assistenti, dal Tmo e da tutta la squadra che lavora con lui. Perché ciò accada però serve che tutti mettano da parte le gelosie, le invidie, le ambizioni personali. Non è facile. Se i rapporti tra arbitri non sono eccellenti, se le relazioni non sono più che buone, c’è sempre il rischio che qualcuno pensi per sé, taccia se c’è da qualcosa da dire per aiutare un collega in difficoltà. Da questo punto di vista l’ultimo Mondiale è stato eccellente, abbiamo fatto un grande lavoro, sono molto soddisfatto”.
La sua premessa però è stata che l’arbitraggio è sempre più difficile…
“Sicuro, la regole sono complesse e molto di quello che viene fischiato non ha una definizione precisa nel regolamento. Molte volte gli arbitri vengono da me per chiedere come andava interpretata un’azione. Mi chiedono: è bianco o nero? Purtroppo molte volte è grigio. E quello su cui si è concentrato il mio lavoro in questi anni è stato dare delle linee guida che aiutassero a uniformare la direzione di tutti, soprattutto diminuissero le differenze di interpretazione tra gli arbitri dell’emisfero nord e quelli del sud”.
Una differenza che persiste?
“Una differenza che persiste nel modo di intendere il gioco. Questo è evidente: nell’emisfero sud il rugby è più veloce, più aperto, più votato all’attacco. In Europa, penso al Top 14, è più tattico, contano molto le difese. Appena insediato nell’incarico, a settembre del 2012, feci un’analisi del gioco nel Super Rugby: il 90% delle punizioni veniva assegnato in favore delle squadre in attacco. Così non poteva andare: non rispettava il principio di equità di cui ho parlato prima e che deve consentire di difendersi anche alla squadra più debole. Ne parlai con Lyndon Bray (game manager delle Sanzar, ndr), il quale era scettico sulle possibilità di trovare una soluzione. Abbiamo lavorato con impegno. Oggi posso dire che fra i due emisferi resta una differenza nel modo di interpretare il gioco ma non di arbitrarlo. Gli arbitri usano lo stesso metro, al nord e al sud”.
Dato che il regolamento è lo stesso, quello che contano, dunque, sono le linee guida, le indicazioni di massima.
“Esatto, ed è ciò che rende il nostro lavoro complicato ed estenuante. Per esempio: sui punti di incontro abbiamo detto che un giocatore, un difensore, non può guadagnare spazio mettendo le mani a terra, magari un metro oltre la palla. Se hai un giocatore di due metri e centotrenta chili non lo muovi più. Abbiamo detto che in quel caso, deve mettere le mani sul pallone, essendo ben in equilibrio sulle sue gambe. Questa è stata l’indicazione negli ultimi tempi. Ma adesso, per ovviare a questo problema, il giocatore che va a terra, non mette più la palla a disposizione dei compagni, la protegge con il corpo, la tiene sotto le pancia. E allora c’è bisogno di nuove indicazioni, perché tutto questo nel regolamento non c’è. Il regolamento dice che il giocatore che va a terra deve liberare la palla rapidamente (quickly). Ma se io attacco con la palla in mano, vengo placcato e, immediatamente, l’arbitro mi penalizza perché io non l’ho liberata in tempi sufficientemente rapidi – una regola pensata per velocizzare e rendere più spettacolare il gioco – sapete quale sarà il risultato? Che l’allenatore darà indicazioni di calciare lungo, per evitare di dare all’arbitro la possibilità di fischiare il tenuto a terra. Allora noi, scherzando, abbiamo detto che il pallone va liberato “quiiiiiiickly”, concedendo, diciamo, un secondo in più per mantenere il possesso. Capite cosa intendo quando parlo di linee guida e interpretazioni?”
Altro problema: la mischia.
“Diciamo che è stata una delle nostre preoccupazioni di questi anni: la sicurezza dei giocatori. L’obiettivo era ridurre i crolli delle prime linee. Abbiamo lavorato molto, anche con gli allenatori della mischia e penso che che con l’ultima Coppa del Mondo abbiamo raggiunto un risultato accettabile. Adesso dobbiamo tornare a mettere attenzione sull’introduzione della palla, che ultimamente è stata un po’ trascurata perché non era una priorità. La palla deve esser introdotta al centro degli schieramenti, su questo non c’è dubbio”.
Dunque la mischia resta nella sua opinione una fase di contesa e di conquista, non semplicemente un modo per riprendere il gioco.
“Esatto”.
Ai Mondiali c’erano arbitri di sole sei nazioni, parliamo dell’arbitro centrale, non degli assistenti. Alla Coppa del Mondo di calcio anche il Gambia e il Bahrein ne avevano uno…
“Questo è un dramma, lo so. Ma non si può paragonare il football al rugby e ugualmente non si può arbitrare il rugby ad alto livello se non se ne ha l’abitudine e non si arbitra regolarmente in un campionato competitivo. Ai Mondiali U20 abbiamo designato arbitri giapponesi, uruguaiani e rumeni. Ma finito il torneo questi non hanno più avuto la possibilità di fare esperienza, i campionati dei loro paesi non gli offrono possibilità di crescere, questo è il vero problema”.
Vale anche per l’Italia?
“La Federazione Italiana sta lavorando molto e bene per alzare il livello degli arbitri e ha sempre avuto il mio pieno supporto. Io spero che presto ci sarà un arbitro italiano nel Sei Nazioni, Marius Mitrea non è così lontano, e io posso garantire che rispetto al passato non ci sono più diffidenze di “sistema”, le porte sono aperte a tutti. Il problema degli arbitri italiani oggi è farsi le ossa a livello di club, in campionato, nel Pro12, soprattutto nelle coppe: a quelle porte devono bussare con insistenza, come fa ogni giocatore che vuole far parte della Nazionale e partita dopo partita si apre la strada verso la convocazione. Un’altra via non c’è. Ovviamente arbitrare nel Top14 aiuta: ogni settimana c’è una partita di alto livello, con standard vicinissimi a quelli internazionali. In Italia è più difficile perché il campionato non ti aiuta a fare quel tipo di esperienza”.
Ci sono parecchie critiche al ruolo del Tmo, alla sua invasività, diciamo così.
“È una cosa che mi dicono in molti. Il tema è all’ordine del giorno. Ma mi preme sottolineare un fatto: sapete quale è stata la media di interventi per partita nell’ultimo Mondiale? Meno di tre (2,8 ndr) a partita. Molti si stupiscono ma è così, e mi pare un dato onesto. A fuorviare è stata la partita inaugurale (Inghilterra – Fiji, ndr) con sei chiamate. Si parla di introdurre un sistema, come nel tennis, due chiamate per allenatore, una per tempo: sono già quattro, più quelle che l’arbitro avrebbe diritto di fare per chiarire certe situazioni. Ne avremmo come minimo sei o sette a partita. Gli allenatori sfrutterebbero la loro possibilità in momenti topici per mettere pressione sull’arbitro o sugli avversari. Ne parleremo, ma credo che finiremmo per peggiorare le cose, non per migliorarle”.
Siete ormai anche voi strumenti del marketing ovale, vi si chiede di rendere il rugby più facile, più televisivo. Ne siete consapevoli?
“Sì ma questo non è un male se significa rendere il rugby più semplice, il gioco meno complicato, meno violento. Valgono sempre le tre regole: sicurezza, continuità di gioco, equità”.
Nella foto di Eric Cabanis/Getty Images, Jutge in un match della Rwc 2007.