Dopo nove stagioni in Italia, Gonzalo Garcia ha deciso di chiudere con l’Italia. Si lascia alle spalle qualche rimpianto e tante soddisfazioni.
Allrugby lo ha intervistato qualche settimana fa, alla fine del Pro12
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La sua ultima meta in Nazionale, a marzo contro il Galles, ha coinciso con la partita di addio alla maglia Azzurra. Gonzalo Garcia, a 32 anni, ha deciso che gli ultimi spiccioli di una carriera tutt’altro che modesta vuole spenderli all’estero. Gli dispiacerebbe portarsi dietro il rammarico di non averci provato fino in fondo. E alla Francia, o l’Inghilterra, già pensava da qualche stagione.
“Sì, lo ammetto, era da un po’ che avevo in mente questa cosa, ma non è facile trovare la squadra giusta che ti voglia e io finora non ce l’ho fatta. Non è una questione di soldi, assolutamente. E’ che vorrei chiudere con un’esperienza diversa, di rugby e di vita. Non è capitata quando ero più giovane, ma adesso mi sono posto l’obiettivo di finire con questa soddisfazione”.
Quando avviene questa conversazione, Garcia, che qualcuno ancora chiama “Gigi”, anzi “GG” (dalle inziali di nome e cognome) come lo aveva soprannominato Mallett, non ha ancora trovato l’approdo per la prossima stagione. “Ma il dado è tratto – spiega -, ho deciso di non restare in Italia anche se ancora non ho una sistemazione. Vediamo come va a finire”.
La moglie Alicia, anche lei di Mendoza, si occupa di import-export di vini argentini. “Può lavorare da casa – spiega il centro della Nazionale -. Le basta un computer e un collegamento Internet”. Matteo, 15 mesi, per ora si pone il problema di dove giocherà papà. Tornerete in Sudamerica, prima o poi?
“Forse sì, ma non è una risposta facile, in questo momento non sappiamo nemmeno dove saremo dopo l’estate”.
Eppure Gonzalo Garcia, lo scorso inverno, a 32 anni, ha giocato il miglior rugby della sua carriera internazionale. Il Sei Nazioni dell’Italia è stato quel che è stato, ma lui, da ogni partita, è emerso sempre come uno dei migliori della squadra. Possibile che nessuno lo abbia cercato?
“E’ così – dice -. Io ho sempre dovuto lottare, niente mi è capitato in modo facile. Altri hanno avuto più occasioni, questo è vero. Ma ogni storia è diversa, e se prendi Ghiraldini e Campagnaro, per esempio, che sono andati a Leicester e a Exeter, devi ammettere che sono due grandissimi giocatori. E poi ho avuto troppi infortuni, in momenti importanti della carriera. Di più io non potevo fare, ho sempre dato il massimo, in campo e in allenamento, su quello non ho rimpianti. Certo sono anche uno che non si è mai speso troppo con i giornalisti, non sono un uomo di pubbliche relazioni, se posso mi faccio gli affari miei. Però fatemi dire una cosa”.
Prego.
“Messa così sembra che stiamo parlando di una carriera modesta, incompleta. Io invece sono orgoglioso di quello che ho fatto. Se quando sono arrivato, nel 2007, a ventitré anni, mi avessero detto che avrei vinto due scudetti (2008 col Calvisano, 2010 col Treviso, ndr), giocato due Mondiali e più di quaranta partite con l’Italia, il Sei Nazioni, la Celtic League…onestamente ci avrei messo la firma. Direi che male non è andata”.
Tre stagioni a Treviso, poche partite però, una ventina in tutto. Forse quello è il passaggio che ti è andato meno giù…
“A Treviso, in effetti, io e Alicia ci eravamo trovati benissimo, un gran gruppo, un bell’ambiente. Abbiamo anche comprato casa per restare. Poi dopo il Mondiale 2011, complice un infortunio, ho giocato pochissimo. E il club probabilmente ha pensato che non sarei stato in grado di tornare a esprimermi a un buon livello. Così a fine di quella stagione non mi hanno rinnovato il contratto. Quella volta sì ci sono rimasto male, per me è stato uno schiaffo”.
Poi il trasferimento alle Zebre e un anno e mezzo di purgatorio, 15 mesi senza essere più chiamato in Nazionale, fino in pratica alla famosa partita di Twickenham (marzo 2013), quella degli inglesi messi alle corde dall’assedio finale degli Azzurri e l’Italia, per la prima volta, capace di ripartire dall’Inghilterra senza aver subito neppure una meta.
“Anche in quel periodo ho sempre lavorato, non ho mai smesso di fare il mio dovere. Quando Brunel mi ha chiamato la mia carica era quella del primo giorno. Dopo, in effetti, non sono praticamente più uscito di squadra”.
Quest’anno un’esplosione, forse un po’ tardiva, ma efficace. Un Garcia come quello dell’annata 2015/2016 non l’avevamo quasi mai visto, in tante stagioni.
“Ma io sono sempre stato lo stesso, non ho cambiato molto. Forse quest’anno da parte mia c’era più consapevolezza, più convinzione. Sapevo che sarebbero state le mie ultime partite in Italia e forse ho dato un po’ di più per quello”.
Parliamo delle Zebre, invece, la stagione ha avuto parecchi alti e bassi.
“E’ vero, ci sono stati periodi buoni, ma anche molte settimane difficili. Cosa manca? Secondo me soprattutto un senso di appartenenza, l’attaccamento alla maglia, ai suoi colori. Manca una storia, anche se dicono che le Zebre (soprattutto come club a inviti, ndr) un storia ce l’hanno. Io per esempio non la conosco. E comunque è diversa da quella del Treviso o del Marista, il mio club a Mendoza. E poi hanno pesato i troppi cambiamenti, tecnici, societari, il via vai di giocatori e allenatori. Nelle quattro stagioni che io ho trascorso alle Zebre ogni volta abbiamo ricominciato daccapo. Nello sport è difficile vedere subito i frutti del tuo lavoro, i risultati. Ci vuole pazienza. Prendete Connacht e Glasgow: i Warriors nel 2011 sono finiti penultimi, dietro al Treviso, il Connacht due anni fa era decimo. Adesso sono tutte e due ai play off. Io ho parlato con i giocatori, gli ho chiesto un po’ come vanno le cose da loro. La risposta è stata che la parte organizzativa, strategica è perfetta. Noi alla Zebre, nello stesso arco di tempo abbiamo cambiato in continuazione, senza che fosse mai ben chiaro perché”.
Sei cresciuto in Argentina, un paese i cui risultati sul campo sono in rapida crescita. Jacques Brunel ha detto più volte che è impossibile paragonare il rugby italiano a quello “albiceleste”, sei d’accordo?
“Oggi il confronto è impossibile, dò ragione a Brunel. La qualità dei giocatori, la storia stessa dei club, le loro tradizione sono diverse. Ma devi lavorare per ridurre quelle distanze e io sono del parere che con progetto serio non sia impossibile raggiungere quei traguardi. Devi far crescere gli allenatori, poi i giocatori, non vedo perché non si possa fare anche in Italia”.
Che opinione avevi di Brunel come allenatore?
“Una persona seria, molto onesta, che aveva le sue idee, molto rispettato dovunque siamo andati. Non sono arrivati i risultati, ma io di lui ho un buon ricordo, abbiamo avuto un bel rapporto”.
L’allenatore migliore che hai avuto?
“Dico Mallett per la sua capacità di mettere il gruppo al cento di tutto. Un bravo allenatore, ma soprattutto un grande motivatore, uno capace di creare le condizioni giuste per fare squadra”.
I momenti più belli di questi anni trascorsi in Italia?
“Sicuramente le due vittorie con la Francia (2011) e l’Irlanda, nel 2013. Due momenti molto particolari di cui conserverò il ricordo per sempre”.
I Mondiali?
“Mah, per un motivo o per l’altro sono stati momenti difficili, nei quali non sempre siamo riusciti a fare quello che volevamo. Di quest’ultimo poi ho giocato solo una partita, col Canada a Leeds. Contro l’Irlanda mi sono fatto male dopo tre minuti… è stata dura”.
Il rammarico più grande?
“Quello di non aver visto le Zebre crescere come avrebbero dovuto. Non dico che avremmo potuto arrivare chissà dove, ma mi dispiace che in questi anni non ci sia stata una continuità, è un peccato non poter dire: siamo partiti da lì e siamo arrivati qui”.
Cosa è mancato?
“Un progetto a lungo termine, con delle basi chiare, rispettato da tutti, con uno staff competente, dei tecnici competenti, disposti tutti a lavorare insieme per un obiettivo comune. Non è solo una questione di mezzi. Non credo per esempio che i soldi spesi dalle Zebre in questi anni siano stati sempre spesi bene”.
Lasci l’Italia a trentadue anni, come vedi i giovani e il futuro di chi prenderà il tuo posto?
“I ragazzi di oggi hanno dei mezzi enormi, non se hanno la stessa mia determinazione. Tanti di loro non sono abituati al lavoro duro. Tecnica e fisico non gli mancano. Il carattere si deve costruire”.
Gonzalo Garcia è nato a Mendoza il 18 febbraio del 1984. In Eccellenza ha esordito nell’ottobre del 2007 con la maglia del Calvisano. Ha giocato anche tre stagioni a Treviso e quattro alle Zebre. Ha collezionato 44 caps e disputato due Mondiali (2011 e 2015).
(nella foto di Jan Kruger/Getty Images, la meta al Canada a Leeds, lo scorso settembre)