Warriors, Chiefs, Rhinos, Tigers, Blossoms, Jaguares, Crusaders, Pirates, Ospreys, Dragons, Bulls, Blue Bulls, Sharks, Golden Lions, Hurricanes, Stormers, Reds, Brumbies, Warahtas, Western Force: il futuro è in queste etichette aggressive che ricordano il football, quello americano s’intende, lo sport-spettacolo amato dai camionisti. Il rugby di un domani terribilmente vicino è sempre più prossimo a questo scenario: senza più radici, senza amore per la terra d’origine, senza amicizie da coltivare al pub dopo la partita, tutto incernierato sul denaro, lo spettacolo, lo scontro che fa crocchiare le ossa, gli spazi sempre più ristretti che impediscono colpi d’ala e lunghe, rapsodiche fughe che parevano sonate con variazioni. L’unica che in questo momento viene in mente è quella che Mozart dedicò alla morte del Signor Contrappunto, che conteneva tutte le forme corrette per costruire la correttezza della forma e la bellezza dell’armonia.
Non è per comportarsi come Peter Finch, profeta pazzo in Quinto Potere, ma c’è della gente pericolosa che fa del male al rugby, così come c’è gente che fa male alla nostra vita tout court, che la porta verso il rettilineo della sparizione, la via dell’estinzione, l’avenue della dissoluzione morale. Uno, tanto per fare nomi, è Mourad Boudjellal che appiccica sul suo album le figurine di una collezione che non ha fine: potesse, li comprerebbe tutti, grossi e aggressivi; gli concedessero un gioco senza frontiere, emigrerebbe per la Premiership inglese, portando il lampo del giallo del sole mediterraneo sul parabrise del campionato inglese.
Andiamo avanti così, facciamoci del male, diceva Nanni Moretti a proposito di una scarsa conoscenza della Sachertarte esibita dal suo interlocutore. Andiamo avanti così, facciamoci del male a proposito di un futuro sempre più minacciato da un’attività che prende alla gola (quante partite possono essere giocate in questo maelstroem sempre più bestiale? Trentacinque l’anno?), che privilegia franchigie che assomigliano a compagnie di ventura, che propone sempre più insistentemente salary cap, che prevede finestre autorizzate e no, che annuncia la lenta ma inesorabile presa di potere delle eurocoppe, del Superugby. Il calcio ha vissuto questi mutamenti e ne è uscito come un organismo geneticamente modificato. Chi è abbastanza vecchio, può ricordare che la Nazionale era un onore, un punto d’arrivo, un momento che aveva la sua sacralità, una soddisfazione per il club che forniva la materia prima. Ora le Nazionali giocano negli angoli concessi dal calendario, il martedì, il venerdì, e spesso chi è chiamato arriva al raduno con la busta di esami radiografici che ne sconsigliano l’utilizzo o magari con il medico sociale al seguito, pronto a mettersi al volante e a riportare a casa il brevemente selezionato.
L’ingenua domanda è: vogliamo che capiti anche nel rugby? Magari sta già capitando e uno dei fattori di cui tener conto è la risalita del pianeta da parte di quelli che stanno nel mondo di sotto e si spostano in Europa per un lungo meriggio irrorato di denaro, garantito più dalle televisioni che dal pubblico. Perché, diciamolo una volta per tutte, a Parigi vanno quattro gatti a vedere Stade e Racing, e a Leicester, Northampton, Coventry, Bath e Londra Nord non è che abbiano costruito cattedrali per gli appuntamenti di campionato, di coppa.
E così il rugby, malgrado i tentativi di violenza che sono stati portati in quest’ vent’anni di tumultuosa e incontrollata crescita, continua a essere un fenomeno unico: locale, provinciale e pronto a diventare magnificamente compatto e fitto come un esercito nel Signore degli Anelli quando si tratta di mettere in campo l’onore di una nazione. Preservare quest’aspetto è anche garantire un futuro, evitare il crollo della vecchia, amata Ovalopoli. L’Alleanza deve resistere all’Impero che colpisce ancora, che colpisce sempre.