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Alla velocità di una centrifuga lanciata a massima velocità, per produrre uno “whitewash”, un lavaggio a fondo. Il terzo test tra Australia e Inghilterra (40-44, ndr) rimarrà in vari repertori, a cominciare da quello della storia per continuare e sconfinare in quello della bellezza che prende alla gola. Sette cambiamenti sul ponte di comando, un margine che solo nel finale vede la Rosa toccare quota 9, prima di ridursi a 4 sull’ultimo assalto dei Wallabies, in meta con Nayaravoro.
Il record di Eddie Jones sta prendendo una consistenza statistica formidabile: nove partite, nove vittorie, un Grande Slam, una serie vinta 3-0 in Australia, impresa mai riuscita ai predecessori. Spazzare il rimpianto per quel che non è stato fatto otto mesi fa e sostituire con una speranza solida come la rocca di Gibilterra per la Webb Ellis che verrà, là dove sorge il sole, il Giappone, cui il tasmaniano Eddie appartiene per parte di mamma e con il quale ha compiuto miracoli: chiedere agli Springboks.

Lontanissimi i tempi (1998) in cui una giovane Inghilterra (con Jonny Wilkinson) fu travolta dagli australiani 76-0 e investita dal dileggio della vecchia colonia.
A Sydney senza respiro, in un caleidoscopio di emozioni, di sorpassi e controsorpassi, di mete (apparentemente) semplici marcate dai gialloni
di casa, di spaventosa solidità degli avanti in bianco, di mirino perfettamente collimato di Owen Farrell, che chiude con 24 punti riproponendo una quasi infallibilità wilkinsoniana.
Finisce con un 46-6 e con un “blackwash” (versione neozelandese del whitewash…) anche la serie tra All Blacks e Galles. Per chi, inutile dirlo. Una volta lo stadio di Dunedin era chiamato la Casa del Dolore. Per i gallesi, avanti solo nel primo tempo del primo test, l’etichetta non è cambiata.
Il chiudersi del sipario anticipa una riapertura della cortina ricamata
d’ovali in filo d’oro di qui a dodici mesi: per seguire i Lions (con quanti inglesi?) in Nuova Zelanda, posti in rapido esaurimento.
G. Cim.

(Foto Cameron Spencer/Getty Images)

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