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L’altro giorno, era il 4 marzo, sono andato al Carlini per Cus Genova-Lyons Piacenza, sfida-chiave della serie A, ma non ho visto la partita: sono tornato subito a casa perché era morto sir Roger Bannister e avevo molto da fare: divento un Arlecchino dai molti padroni quando posso scrivere di quel che amo, anche quando mi rattrista. Ai vecchi amici che mi domandavano: ma dove vai? Rispondevo che era morto Bannister e giovani e vecchi non sapevano chi fosse: credo che non lo sapessero neanche nei giornali e nelle tv. Allora ho provato a tradurre in linguaggio ovale: “E’ uno che ha fatto un’impresa che sta alla storia dello sport come la meta di Gareth Edwards in Barbarians-All Blacks del ’73 sta al rugby. È il simbolo di un’epoca dell’atletica”. La mia tribù rugbistica ha capito e mi ha dato una mano fornendomi un resoconto orale di quello che non avevo visto.
Con l’eccezione del direttore, di Luciano Ravagnani e di qualche altro, ho a disposizione un pubblico per raccontare chi era Bannister e cosa ha fatto per guadagnarsi un posto nella storia: era l’uomo che sconfisse l’All Black che non dà respiro, lo Springbok più aggressivo, che conquistò il Grande Slam sul tempo: qualcosa meno di 4’ per lasciarsi alle spalle i 1609 metri del nobile miglio, abbattere la barriera invalicabile.
Bannister era vicino agli 89 anni, aveva il Parkinson e, dopo quarant’anni di studi in neurologia, aveva capito tutto, da tempo. Era una leggenda ma non lo faceva pesare: qualche anni fa un giornalista italiano andò a fargli visita e gli domandò se non gli mancasse l’oro olimpico. “Ma fossi diventato campione olimpico e non avessi fatto quel record, io e lei, giovanotto, saremmo qui, impegnati in questa piacevole chiacchierata?”. Umorismo e orgoglio miscelati alla perfezione.
Il 6 maggio 1954, sir Roger scrisse un record memorabile e brevissimo: capitò a Oxford, pista di Iffley Road, in una giornata ventosa che aveva tentato di spazzare la sua determinazione: quel 3’59”4 durò soltanto 46 giorni, battuto dall’australiano John Landy (che per l’impresa scelse Turku, la città natale di Paavo Nurmi), finì sulla moneta da mezza sterlina, meritò un buon film (“Four Minutes”), partorì chilometri di carta stampata e qualcuno si azzardò a dire che fu l’ultimo palpito di un paese avviato a un radicale cambiamento: il penultimo era stata la scalata del tetto del mondo di Edmund Hillary, neozelandese, e di Tenzig Norgai, nepalese della tribù sherpa. La liquidazione dell’Impero era appesa al filo dell’orizzonte.
Quando Bannister decise di provare, il record era 4’01”4, datato 1945 e proprietà di Gunder Haegg, svedese. Roger aveva 25 anni, era nato nell’elegante Harrow, aveva fallito ai Giochi di Helsinki (quarto nei 1500, strappati dal sorprendente pelatino lussemburghese Barthel), stava per ultimare gli studi in medicina: sul treno da Londra si applicò a un testo di ginecologia. Allenato da Frank Stampfl, un austriaco che attraversò i sentieri del Secolo Breve, aveva solidi amici in Chris Chataway e in Chris Brasher, futuro oro delle siepi a Melbourne ’56: per i tre quella mattina la colazione fu leggera, una scodella di porridge. Gli diedero una robusta mano quando Roger, vinta la tempesta del dubbio, alle sei pomeridiane decise di prendere il via. Brasher tirò le prime 880 yards in 1’58”2, andatura perfetta. Chataway arrivò ai trequarti con una flessione del ritmo obbligando Bannister a un ultimo sofferto giro sotto i 60” per mettere i piedi nella storia. Di quell’arrivo esiste una foto che avrebbe potuto scattare Robert Capa, non fosse stato in Indocina e non fosse saltato su una mina venti giorni dopo: Bannister è al centro della “tela” bianco e nero, capo all’indietro; un giudice, pipa in bocca, annota compunto; un cronometrista si copre il volto e scoppia in lacrime.
Il verdetto venne dallo speaker Norris McWhirter e alimentò il gusto britannico per la forma e per la suspense: “Signore e signori, questo è il risultato della gara n. 9, il miglio: primo, il numero 41, Roger G. Bannister dell’Amateur Athletic Association, studente dei college Exeter e Merton, con un tempo che rappresenta un nuovo record della pista e del meeting e che, dopo esser stato sottoposto a ratifica, sarà un nuovo record inglese, britannico, su suolo britannico, europeo, dell’Impero britannico e del mondo. Il tempo è 3’…” Gli applausi della folla coprirono il numero dei secondi e dei decimi: Quel che contava era il 3: i cancelli del cielo erano stati forzati. La notizia uscì in prima pagina sul Times, su una colonna.
Quel record, quell’anno mi hanno portato a scartabellare sul 5 Nazioni che si era concluso meno di un mese prima, il 10 aprile: vittoria della Francia sull’Inghilterra (decisivo Jean Prat, Monsieur o Mister Rugby) e del Galles sulla Scozia. Secondo i vecchi canoni, tre a spartirsi il vertice finale; secondo i nuovi, primo Galles, seconda Francia, terza Inghilterra. Scozia lavata a secco. Non posso giurarci ma scommetto che parecchi di quei giocatori guardarono il breve servizio della giovane Bbc. “Well done, Roger”, era la conclusione senza fronzoli.

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