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Lo scorso maggio maggio, Marco Bortolami ha messo il punto a una carriera enorme da giocatore, vincendo con le Zebre contro i Dragons in Pro12. Da tecnico ha cominciato un minuto dopo, nello staff del Treviso, ma sarebbe meglio dire che l’allenatore aveva già iniziato a farlo da anni, in campo. Allenatore e capitano, con la Nazionale azzurra – 11 Sei Nazioni, tre mondiali, 112 caps – e poi in Francia con il Narbonne, in Inghilterra a Gloucester, di nuovo in Italia. Una vocazione da vincente. Un capitale umano a cui l’Italia può, deve continuare ad attingere.
di Stefano Semeraro

Bortolami, cosa resta di tutto il rugby che le è passato fra le mani?
“Un bagaglio di esperienza incredibile. Ogni persona che ho incontrato, ogni momento bello o brutto, è ancora vivo dentro di me. Sono stati anni molto intensi, un viaggio fantastico. Ogni singolo passo ha contribuito a formare quello che sono adesso”.
Dire basta è stato difficile?
“In realtà per me il viaggio sta continuando. Ho avuto la fortuna di restare nell’ambiente, quindi il passaggio è meno traumatico. Del resto, e i miei compagni lo sanno, la mentalità da allenatore l’ho sempre avuta. Il progetto è nato pian piano, naturalmente. Già negli ultimi tempi in campo mi mettevo nei panni dei miei allenatori cercando di individuare i problemi da risolvere”.
Allenatore e capitano nato: dalla U20 alla nazionale maggiore, da Narbonne a Gloucester. Due vocazioni parallele?
“Capitano nato, no: da ragazzino ero molto timido e riservato. È un tratto che è rimasto nel mio modo di essere. Con gli anni ho imparato ad aprirmi, ma se nelle doti di capitano c’è anche quella di prendersi le responsabilità, di mettersi in gioco, allora sì, era insita nel mio carattere. Su altre componenti ho dovuto lavorare per migliorarmi”.
Chi sono state le persone più importanti per la sua carriera?
“Dal punto tecnico sportivo il mio club di appartenenza, il Petrarca. Dal punto di vista mentale la mia famiglia, e poi un allenatore che ho conosciuto in età critica, attorno ai vent’anni, e cioè John Kirwan, che più di ogni altro mi ha segnato, trasmettendomi la forma mentis che poi ho cercato di mantenere e sviluppare”.
Da Kirwan a Brunel: più passi in avanti o più occasioni perse?
“Chi più chi meno, tutti hanno lavorato nella media di ciò che il rugby italiano poteva dare, senza fare la differenza. Kirwan ha avuto la sfrontatezza e l’apertura di lanciare tanti giovani che poi hanno scritto pagine importanti, sia in Nazionale sia con i club. Gli altri… Qualcuno ha sfruttato momenti positivi, altri ne hanno vissuti di negativi”.
Nick Mallett: più luci o più ombre?
“Mallett per me è stato soprattutto un buon motivatore. Sapeva caricare la squadra. La scuola sudafricana si basa sulla dominanza fisica sull’avversario, ma noi non abbiamo certe dimensioni quindi non possiamo fare lo stesso gioco. Non mi ha entusiasmato dal punto di vista tecnico, ma è una persona estremamente trasparente e onesta. Ti dice sempre le cose in faccia: uscendo dal periodo Berbizier non è stato male, ha dato una spinta molto forte alla squadra e ha ottenuto qualche vittoria importante”.
Qual è stato il problema di Brunel?
“Ha ottenuto anche lui un paio di belle vittorie, ma in un Paese come il nostro, in una realtà come la nostra, o si ha la forza di importare un sistema dalla A alla Z, oppure il sistema deve avere la forza di sostenere e aiutare un allenatore che magari non ha l’energia o le competenze per farlo. Quando si sceglie un ct bisogna conoscerne i pro e i contro. Jacques è partito molto bene, alla fine ha segnato il passo. Negli ultimi dodici anni solo gli All Blacks sono riusciti a ottenere risultati con continuità, ma la competenza e l’importanza di un allenatore stanno anche nell’invertire la tendenza. La nostra squadra invece è sempre partita bene con tutti gli allenatori, poi regolarmente è finita alla deriva, come una barca senza controllo”.
Ora tocca a O’Shea: di nuovo un anglosassone, dopo l’ennesimo francese.
“Io sono al 100 per cento per la mentalità anglosassone. Ho giocato sia in Inghilterra sia in Francia e resto convinto che la metodologia anglosassone – più quella inglese, irlandese, neozelandese, australiana, meno quello sudafricana – possa darci qualcosa in più. Risultati meno casuali, la cognizione di cosa si fa e perché la si fa. Poi ovviamente i buoni e i cattivi allenatori ci sono ovunque. Confesso che quando è stato nominato ct O’Shea mi è costato un po’ di più smettere. Non lo conosco, ma a giudicare dal suo background, e a prescindere dalle buone cose viste nella prima partita, penso davvero che con lui possano arrivare buoni risultati”.
Nel 2008 l’Italia batteva l’Argentina a Cordoba, l’ultima volta che abbiamo vinto contro di loro. Ora i Pumas sono anni luce davanti a noi. Perché?
“Negli ultimi 2 o 3 anni hanno compiuto un salto incredibile grazie alla consulenza di Graham Henry. Però hanno avuto anche la capacità di metabolizzare le sue idee e di portarle avanti. Tutte le Nazionali hanno bisogno di una figura che sappia indicare la direzione giusta. Si vede quando è stato importante Joe Schmidt per l’Irlanda, specie nei primi due anni, mentre ora sta lavorando di fino, Warren Gatland per il Galles e lo stesso Vern Cotter con la Scozia. Quando ci sono persone sopra la media, arrivano risultati sopra la media. Spero arrivi il nostro turno molto presto”.
O’Shea ha subito messo l’accento sulla preparazione fisica: d’accordo?
“Non ho sentito le parole di O’Shea, però da allenatore credo che sia tempo di smettere di guardare ai giocatori come ad atleti, a rugbisti, a uomini da gestire psicologicamente, e iniziare a considerarli delle unità funzionali. Voglio dire che occorre essere coscienti che ciascun aspetto influenza gli altri. La non competenza tecnica può riflettersi in una mancanza di qualità fisica al termine di una partita: se corri male e non fai le scelte giuste, negli ultimi venti minuti ti senti più stanco del tuo avversario che è più competente tecnicamente. Fermarsi al fatto che uno corre i 100 metri mezzo secondo più lento di un altro è riduttivo e sbagliato. Sono concetti ancora estranei per tutta la nostra realtà sportiva, non solo quella rugbistica, mentre allenatori come Mourinho e Guardiola, o i tecnici degli All Blacks, sono su questa strada da anni. Credo che il futuro sia questo”.
Torniamo a lei e proviamo a staccare un’immagine dallo sfondo: Edimburgo, marzo 2007, Scozia-Italia 17-37. Il momento più bello?
“Sicuramente. La mia generazione è venuta dopo quella dei Giovanelli e dei Troncon, che ci ha permesso di entrare nel Sei Nazioni. La vittoria di Edimburgo è stato il momento in cui la nostra generazione ha detto: ecco, ci siamo, siamo competitivi anche noi. Poi quel risultato arrivò prima di un Mondiale e creò un’aspettativa incredibile per il nostro sport, procurando un salto di qualità mediatico di cui ancora stiamo beneficiando”.
Un Mondiale in cui, sempre contro la Scozia ma a Saint Etienne è arrivata la delusione forse più bruciante. Anche per le tante polemiche, i veleni, il capitanato perso.
“Fu la prova di quanto quel progetto in fondo avesse basi poco solide. Quando dico che preferisco le squadre anglosassoni intendo anche questo. A capo di quel progetto c’era Berbizier, e i risultati sono stati quelli che sono stati, anche se poi siamo arrivati a un calcio di punizione dai quarti di finale: fosse andato dentro, ora parleremmo di tutta un’altra storia. Però i miei giudizi non sono mai legati a una singola partita, piuttosto a tante cose che magari da fuori non si vedono, ma maturano giorno dopo giorno. L’esposizione mediatica ha due facce, quindi certe cose le ho subite sulla mia pelle e mi hanno anche fatto male; a posteriori dico che fa parte del gioco. Non è stato piacevole vivere certe polemiche gratuite. Come tutte le cicatrici, però, mi ha aiutato a diventare più forte”.
L’avversario o il compagno che l’ha impressionata di più?
“Giocare sei mesi a fianco di un monumento del rugby come Carlos Spencer è stato incredibile. A vederlo da fuori sembra creativo, eccentrico; standogli accanto negli spogliatoi ti accorgi che è forse il più professionale di tutti. Super serio, super puntuale. Purtroppo noi italiani tendiamo a pensare che i più fantasiosi siano anche i meno affidabili. Lui mi ha fatto capire che i risultati di certe Nazionali sono fondati su basi concrete e tangibili”.
Da studente di ingegneria anni fa sognava di lavorare alla Ferrari, e da Maranello le spedirono un invito: che fine ha fatto?
“È ancora lì, nel cassetto. Sto terminando gli studi, ho fatto un esame un mese fa, ne mancano una manciata alla laurea. Chissà, se a Maranello avranno ancora bisogno di un manager quando avrò deciso di smettere con il rugby – spero mai… – quel sogno si avvererà”.
Il sogno vero ora è allenare la Nazionale?
“Sì. Per ogni allenatore è naturale, direi doveroso. Come giocatore sono stato abituato a pormi obiettivi sempre più grandi, da allenatore le cose non cambiano. Poi saranno le mie qualità, la mia capacità di migliorarmi in questo nuovo ruolo a decidere il futuro. Da ragazzino guardavo le partite in tv e sognavo di giocare nella Premiership, passo dopo passo quel sogno si è avverato. Uno dei consigli migliori che ho ricevuto da quando sono allenatore è di non guardare alla mia carriera nell’immediato, ma nella prospettiva di venti o trent’anni. Bisogna avere pazienza, e credere in quello che si fa”.
Marco Bortolami è nato a Padova il 12 giugno del 1980. Nel campionato di Eccellenza, col Petrarca, ha esordito un mese prima di compiere vent’anni, nel maggio 2000. In Nazionale ha debutatto l’anno dopo, in tour contro la Namibia. In Inghilterra ha giocato 50 partite in Premiership, con la maglia del Gloucester, di cui è stato anche capitano. Con l’Italia ha disputato 112 test ed è stato 39 volte capitano.
Ha vestito anche le maglie del Narbonne (dal 2004 al 2006), degli Aironi (2010-2012) e delle Zebre (2012-2016).

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