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Il lavoro di Andy Vilk comincia a dare i primi frutti, l’Italia ha vinto il Plate (quinto posto nella classifica finale) al torneo Seven di Gdynia. Federico Meda lo ha intervistato all’inizio di giugno per il numero 105 di Allrugby.
La sensazione, chiacchierando con Andy Vilk, un passato nella nazionale Seven inglese, è che qualcosa si stia muovendo. La Federazione, anche se tardi e timidamente, sta iniziando a investire soldi e risorse nella variante più popolare (in senso  planetario, non italiano) del nostro sport. Si intravedono parole magiche come progettualità, visione a lungo termine e logiche da passo dopo passo. Basteranno per sognare la qualificazione a Tokio 2020?
“Noi italiani non siamo adatti al Seven”, una frase che si sente spesso, a metà fra la giustificazione e il vittimismo. Cosa rispondi?
Chiederei loro il perché, non capisco su che basi si possa affermare ciò. Ogni squadra ha le sue caratteristiche di gioco, i suoi punti di forza e di debolezza. Tutto sta a gestirli in ottica Seven.
Quali sono le varie tipologie di gioco del Seven, in fondo noi italiani siamo alle prime armi e Rio 2016 sarà la prima vetrina davvero mondiale per questa disciplina.
Prendiamo ad esempio 3 squadre molto diverse: Scozia, in qualità di “inventori” del gioco, le isole Fiji, forse i migliori interpreti della disciplina e poi il Sudafrica, diventato una superpotenza.
I fijani sono degli ottimi atleti: veloci, alti, fisici. Il loro di gioco è molto misto, puntano molto sulla continuità evitando il più possibile i punti di incontro. Al contrario dei sudafricani che puntano molto sul peso, sul contatto, sull’offload e su giocare velocemente dopo il placcaggio. Gli scozzesi sono invece molto strutturati: giocano un Seven molto classico, teso a liberare il compagno al largo. Un gioco “bianco”, in inglese “pull out”. Non sono maniaci dell’avanzamento ma dell’attesa, e in difesa sono molto intelligenti e sanno sfruttare bene le regole del placcaggio.
A Mosca, nel torneo di inizio giugno, abbiamo conquistato il Bowl e il nono posto ma la prima giornata è stata, a leggere i risultati e le squadre affrontate, un disastro: Spagna-Italia 35-0, Germania-Italia 19-0, Belgio-Italia 29-7.
Il mondo Seven è molto diverso da quello cui siamo abituati, il ranking lo dimostra. La Spagna, poi, è una squadra rodata, direi a fine ciclo. Sono dieci anni che frequentano il circuito, hanno molta esperienza. Ecco perché ci sono davanti. Il prossimo torneo di ripescaggio a Monaco (in palio l’ultimo posto per Rio, ndr) per loro rappresenta un’ultima chance per mettere a frutto il lavoro e gli investimenti fatti. La Germania non ha questo vissuto ma dopo la stage di due anni fa con Israele, da noi a Catania, hanno iniziato ad allenarsi ogni giorno nei due centri di Heidelberg e Hannover: non sono professionisti ma prevedono sessioni mattutine per permettere ai giocatori di lavorare e studiare. È un’impostazione che sta funzionando. Idem il Belgio: hanno messo sul piatto soldi, una programmazione efficace, molti effettivi giocano nella vicina Francia. La buona notizia è che nel Bowl li abbiamo battuti, nonostante noi siamo in una fase diversa, embrionale.
Come sviluppi l’attività per i prossimi quattro anni?
L’anno scorso, non avendo fatto il risultato nel torneo di Lisbona abbiamo perso l’opportunità di giocare il ripescaggio a Monaco. Abbiamo quindi deciso di guardare avanti, alla prossima rassegna a cinque cerchi azzerando tutto. 8 giocatori su 12 a Mosca erano all’esordio e adesso cerchiamo di lavorare con un gruppo nuovo per dare loro la possibilità di crescere e abituarsi a un gioco profondamente diverso dal XV, che è poi lo standard italiano. I nostri ragazzi hanno poca esperienza Seven, negli stessi club non è praticato. Questo è un gap enorme rispetto alle nazioni più forti: io in Inghilterra ho iniziato a giocare a sette a 13/14 anni, tantissime stelle del XV partecipavano ai raduni della Nazionale. Anche in Nuova Zelanda è così. Da noi invece si comincia a 20-22-25 anni e i big non si vedono mai. Ma il Seven fa bene a tutti, anche in ottica XV. Aiuta molto a leggere il gioco.
Cosa ci manca? Una competizione domestica dedicata? Che i big partecipino all’attività Seven? Che i club puntino anche sulla variante ridotta?
Io cerco di vedere almeno tre partite di Eccellenza a settimana e ho chiesto a tutti club i risultati dei test fisici che hanno fatto, in modo da capire meglio le caratteristiche dei giocatori.  Quest’anno da gennaio abbiamo anche  iniziato a valutare i ragazzi con raduni ogni tre/quattro settimane (a gruppi di 18).. Non è molto, pensiamo a quanto detto della Germania. Poi mi aspetto che gli allenatori mi segnalino qualcuno, ma per tanti il Seven è una realtà sconosciuta quindi non sempre sono attendibili. Siamo aperti, io ed Orazio Arancio, ndr), anche a giocatori delle serie inferiori se sono predisposti per velocità e skills al Seven. Ripeto, siamo quasi all’anno zero e non è facile ma iniziamo a intravedere dei risultati. Anche da parte delle squadre: registro ambizione, voglia e entusiasmo da parte di molti dirigenti di club per innalzare il livello dei tornei sul territorio italiano. È la strada giusta per crescere tutti come movimento e promozione. Occorre creare una cultura Seven in Italia, per dare senso all’investimento nella Nazionale di una disciplina che poi abbia anche un seguito nel movimento.
Su cosa punti come Italia Seven?
Sulla consistenza: solo giocando si può essere pronti ad affrontare questa specialità. A sette bisogna ragionare diversamente perché non ci sono solo 80 minuti a settimana ma tre partite in un giorno e altrettante il successivo. C’è poco stacco tra i match e quelli che giocano normalmente a XV devono imparare e gestirsi energie fisiche e mentali in maniera differente. Bisogna accendersi e spegnersi continuamente e capire che ogni errore si paga pesantemente. Il primo giorno a Mosca è stato un battesimo del fuoco per tanti ma abbiamo reagito bene e, anche se appare effimero il 9° posto, a livello di ranking sono punti importanti in vista dei prossimi tornei.
Quali i nostri più grandi difetti? Quali i pregi?
Tendiamo a farci assorbire nei punti di incontro, un errore tipico di chi proviene dal XV. Nel Seven si gioca sul filo dei secondi, il timing è tutto. Ma questa tendenza a cercare il contatto possiamo giocarla a nostro favore, sfruttando il fisico per mettere pressione sull’attacco. Anche perché, palla in mano, nello spazio, abbiamo fantasia, siamo di scuola francese. Ma bisogna imparare a capire quando lasciare spazio alla creatività e quando essere cinici.
A chi ti ispiri invece tu, come coach?
Il mio mentore è Mike Friday (ex coach Inghilterra e Kenia Seven, ora sulla panchina Eagles), insieme a Ben Ryan (successore di Friday sulla panchina della rosa,dal 2013 head coach dei fijiani). Mi hanno allenato come giocatore, ora come allenatore. Sono andato negli Stati Uniti con Mike per seguire l’attività Seven a stelle e strisce, loro vanno alle Olimpiadi, sono anche tra gli outsider da tenere d’occhio. Sto cercando di prendere ispirazione per i piani di gioco, per la pianificazione dell’intera struttura italiana. Certo, loro possono contare su ali velocissime, noi no ma tanto – se non tutto – si basa sulla creazione dello spazio e sulla pressione sulla difesa, ecco i principi cardine del sette.
Sull’Italia presente a Tokio 2020 sei ottimista o devi esserlo per forza?
Intanto creiamo il gruppo, solo lavorando insieme con continuità si possono fare dei passi in avanti a livello di competitività. Ce lo insegnano tutte le nazioni emergenti. Poi lavorare, lavorare, lavorare.

Nella foto di Harry Trump/Getty Images, Daniele Di Giulio placcato dall’inglese  Daniel Bibby nel torneo di Exeter, lo scorso luglio.

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