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Enrico Ruggeri nel suo ultimo album ha dedicato al rugby il brano “La linea di meta”.  Esalta lo spirito di gruppo e magari un giorno potrebbe diventare l’inno del rugby italiano.,
Questa è l’intervista che Giacomo Bagnasco ha fatto al cantautore per il numero di maggio di Allrugby:
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Una canzone d’autore dedicata al rugby. S’intitola “La linea di meta”, l’ha scritta e la canta Enrico Ruggeri, sempre pronto a incursioni nel mondo dello sport, e non solo perché è da decenni una colonna della Nazionale cantanti. Un brano che si trasforma lentamente in un inno, dopo l’introduzione con un “parlato” di sicuro effetto affidato a Francesco Pannofino.
Si parla di nebbia nelle ossa quando si fanno i giri di campo, di cicatrici vere e virtuali, di fiducia assoluta nel proprio compagno, perché qualcuno ti aiuta e non si vince da solo, e uniti si può guadagnare terreno. E in fondo è una scelta di vita, una voglia segreta che batte nel petto e spinge a passare, eccola qui, la linea di meta. Rugby come metafora dell’esistenza, anche, con Ruggeri che non conoscerà bene il regolamento e “confessa” di non avere mai visto una partita dal vero, ma insomma quello che sta dentro al rugby l’ha capito bene, grazie alla sua sensibilità di artista.
La canzone è inserita nell’album “Un viaggio incredibile”, che è uscito di recente e contiene il pezzo con cui il cantautore milanese ha partecipato all’ultimo festival di Sanremo: “Il primo amore non si scorda mai”. “Il primo amore sportivo – spiega – per me è stato il calcio e in particolare l’Inter. Avevo sette anni quando Sarti-Burgnich-Facchetti e compagni vinsero la prima Coppa dei Campioni. Il mio preferito era Sandro Mazzola, un ragazzo capace di segnare due gol in finale al Real Madrid e di farmi emozionare anche per la sua storia, perché aveva la mia età quando nella tragedia di Superga perse il padre Valentino”.
Al football “Rouge” ha dedicato una canzone, “Il fantasista”, pensando a Best, Maradona, Beccalossi e Garrincha, mentre “La donna del campione” è ambientata nel mondo della boxe e “Gimondi e il cannibale” è stata nel 2000 la sigla del Giro d’Italia. E ora il rugby: “La mia conoscenza del gioco è assolutamente sommaria, ma subisco il fascino letterario di questo sport. Ci sono tanti aspetti che ammiro e che, comunque lo rendono particolare”.
Ad esempio? “Chi è meno forte non vince e non c’è chi vince da solo, tanto è vero che normalmente si parla più di squadre nel loro complesso, come gli All Blacks e i Pumas, che dei singoli. Poi mi piace la parte anglosassone del gioco, la mentalità che trovo anche nel calcio inglese, figurarsi nel rugby: niente simulazioni, niente perdite di tempo. Un’altra cosa che mi interessa è l’assenza di spirito di rivalsa “sociale”, nel senso che a spingere è la passione e non la voglia di diventare ricchi”. Anche se la colonizzazione del rugby ad alto livello da parte del business ormai non è un fenomeno di ieri…
Lo spirito di squadra torna più volte nei ragionamenti di Ruggeri – che attualmente è anche conduttore del programma “Il falco e il gabbiano” su Radio24 – e il parallelismo con la sua professione viene subito accettato. “Dietro a ogni successo, nello sport, c’è un lavoro di squadra: questo conta sempre, anche per specialità apparentemente ultra-individuali come il pugilato. Ma se parliamo del rugby è subito chiaro quanto è importante il lavoro di ogni giocatore: lo stesso vale per l’apporto di tutti i musicisti che sono sul palco o in sala d’incisione”.
E poi la musica può essere protagonista anche allo stadio, prima e durante le partite. Nel rugby il catino più sonoro del mondo è il Millennium di Cardiff, dove risuonano le note dell’inno nazionale, di canti tradizionali e di un evergreen del pop come “Delilah”, del gallese Tom Jones. Possibile che “La linea di meta” venga rilanciata dagli spettatori dell’Olimpico quando giocano gli Azzurri? “Sarebbe bello ma è molto difficile che possa diventare una canzone di riferimento. Forse la Federazione potrebbe promuoverla, intanto penso che troverà la sua collocazione perfetta durante la nostra tournée estiva, perché è un pezzo rock, tirato e poi c’è il coro”.
Se parliamo dell’Italia ovale, non c’è da stare allegri. “Mi sembra che in generale come movimento, e anche come organizzazione manageriale, siamo indietro. Per qualche pomeriggio all’anno i fan italiani del rugby si sentono… scozzesi e c’è molta passione, ma i risultati ci dicono quanto dovremmo migliorare”. Eppure aumenta il numero dei bambini che giocano: “Ma questo non mi stupisce. Ripeto, è uno sport particolare, se te lo spiegano e ci entri è facile appassionarsi”.

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