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Il Galles non batte gli All Blacks da 63 anni. Non è successo nemmeno stavolta (22-36 il risultato della partita di Wellington). Questo tour, ormai avviato a un terzo faccia a faccia senza più costrutto se non evitare una resa senza condizioni, riflette un passato ribaltato invece a Melbourne dal corpo di spedizione inglese organizzato da Eddie Jones. “Da quando il capitano Cook è sbarcato da queste parti, tre vittorie in 17 match. Non è molto, vero?”, aveva esibito il suo sorriso sottile il rifondatore dell’Inghilterra. Ora, due su due, serie vinta (mai capitato) e otto successi in otto partite (Grande Slam compreso) da quando il nippo-tasmaniano ha raccolto quel che restava della Rosa dopo il naufragio mondiale, maturato sulle proprie coste.
Come in un altro storico frangente che ha opposto il Nord al Sud, la Guerra Civile Americana (o Guerra di Secessione che dir si voglia), Jones ha deciso che la difesa può rivelarsi la più mortifera delle armi offensive, per giungere a un progressivo logoramento dell’avversario. Naturalmente questo disegno prevede, oltre a un altissimo spirito di corpo, l’oliato funzionamento di ogni meccanismo.
Le cifre finali dicono che gli inglesi si sono spinti oltre i 200 placcaggi, con un dieci per cento di mancati (58 in totale i placcaggi australiani, 9 sbagliati), e che in queste fasi durissime e concitate hanno concesso solo un paio di punizioni che i Wallabies hanno preferito calciare in touche quando avrebbero potuto portarsi sul 13-10, forse anche sul 13-13. In un confronto nato tra scariche di elettricità dialettica, tra vibranti dibattiti sulla legalità della mischia ordinata inglese (l’obiettivo delle telecamere australiane faceva costantemente focus su Cole), ha avuto la meglio chi ha privilegiato la classicità della difesa strenua, del gioco al piede. E’ finita 13-23, con l’Inghilterra in festa. 

A Wellington è stato offerto un repertorio diametralmente opposto:
le attitudini, la tecnica, le capacità intuitive, le decisioni fulminee degli All Blacks hanno sbaragliato chi, per vocazione, provava a impostare un gioco articolato, ambizioso. “Non rinunceremo alla nostra vocazione offensiva”, aveva detto alla vigilia Sam Warburton, ma questo secondo contatto non ha concesso ai gallesi neppure l’effimera gloria del primo tempo di Auckland. I Neri sono andati controtendenza e non hanno tagliato a fette la difesa nell’ultimo quarto, quando l’ago degli avversari segna la riserva. Il break è venuto all’inizio del secondo tempo con recuperi rapidi e un dispiegarsi che è andato a poggiare sui movimenti cristallini di Barrett, sulle accelerazioni devastanti di Naholo e di Savea (Ardie).
“Prova ad attaccarmi e la mia controffensiva ti annichilerà”, è il credo che diventa prassi.
Quel che è capitato tra Melbourne e Wellington è stata la creazione di una realtà virtuale e l’arricciarsi dell’onda del rimpianto: la finale mondiale mai partorita è oggi scandita dai fatti, da due dottrine diametralmente opposte e così ancora più adatte ad aprire, scatenare un dibattito tra il rugby a rotta di collo dei Neri
e le operazioni di pianificazione dei Bianchi. L’autunno porterà questo faccia a faccia e il desiderio di assistere e analizzare fa fretta a trasformarsi in smania.
Se queste campagne equivalgono a un exit poll per la nomina di chi, tra un anno, guiderà i Lions nel viaggio oltremare più atteso (contro gli All Blacks: è il caso di precisarlo?), la giornata diventa una campana a morto per Warren Gatland, un allegro carillon per Eddie Jones. Che ha detto di non essere molto interessato al compito. Ma si può credere a chi sa esibire un’imperscrutabile espressione da scaltro bonzo? 
G. Cim.

Nella foto di Scott Barbour/Getty Images, la meta decisiva di Owen Farrell.

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