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Alla vigilia dei test d’autunno, riproponiamo qui l’intervista pubblicata da Allrugby a Francesco Minto, capitano dell’ultimo tour azzurro, nel numero 117, lo scorso settembre

di Stefano Semeraro

Con Francesco Minto, terza linea che ama i libri e le cordate, si finisce sempre per parlare di letture e di montagna. A volte mettendo insieme le due cose. “Del libro di Paolo Cognetti che ha vinto il premio Strega (“Otto Montagne”) ho sentito parlare, ma non l’ho ancora letto. Adesso sono alle prese con il “Lupo nella steppa”, di Herman Hesse. Un classico moderno, certo, perché i classici vanno letti…”. Poi c’è l’Himalaya. “Da fare un giorno, quando potrò, da solo, in autonomia, senza supporto. Ma per ora è un ‘chissà’, una cosa lontana…”. Al contrario che nel rugby, dove – è notizia recente – visto che Maometto non sapeva bene che fare con la montagna, la montagna, ovvero le due nuove franchigie sudafricane del rinnovato Pro 14, è venuta al Maometto europeo. Funzionerà, l’ardito innesto?

“Per me è un fatto positivo. Lo dico da giocatore: più culture ci sono, meglio è. Ciascuno gioca la touche o la mischia in modo diverso. Standoci in mezzo impari, cresci, ti arricchisci tecnicamente. Poi sono stati modificati i gironi, e anche bilanciati per rendere più equilibrato il torneo. Sì, sono ottimista”.

C’è invece chi pensa che sarebbe meglio prendere atto che la Celtic League non ha dato i frutti sperati, specie per noi italiani, e tornare a investire sui campionati nazionali. Dimenticando forse che gli unici che sanno stare in piedi anche economicamente sono quelli inglese e francese…

“I campionati nazionali già ci sono. Se alcuni sono in crisi, la colpa non è certo del Pro14. Poi è vero che in Inghilterra e Francia circolano più soldi, più sponsor, più interesse, perché lì il rugby è più radicato, ma anche in Celtic si vedono belle partite e si possono ottenere buoni risultati”.

Capitolo Nazionale. Nel tour estivo hai debuttato come capitano. Che cosa ti resta di quell’esperienza?

“Sono stato molto felice di essere stato scelto, è stato un grande onore. Molti dei compagni di Nazionale li conosco da tempo, altri sono giovani che si sono prestati volentieri ad una tournée non facile, nella quale abbiamo giocato con squadre meglio piazzate di noi nel ranking, l’Australia addirittura dieci posizioni più in alto di noi. I frutti di quell’esperienza credo inizino a vedersi nella preparazione fisica, anche in questi giorni con la Benetton. C’è un percorso da continuare, molto lavoro da fare. Quest’anno tutto sarà un po’ rimescolato, ma a Treviso vogliamo continuare la serie positiva”.

Domanda sgradevole: a 30 anni senti il rischio di appartenere ad una generazione che è arrivata dopo quella ‘storica’ del Sei Nazioni, con grandi ambizioni e attese, ma che potrebbe non ottenere mai i risultati sperati?

“No, non sento questo tipo di pressione. E’ vero che negli anni scorsi sono stati fatti degli errori. Per un periodo non si è lavorato bene, ma oggi le cose sono cambiate, anche grazie all’impegno del ct Conor O ‘Shea. Anche le franchigie ora sono più seguite, e quando funzionano i club di solito funziona anche la Nazionale, però ci vorranno almeno un paio di anni per vedere i frutti di quello che è stato seminato”.

Quando parli del passato intendi la gestione Brunel?

“Sì, almeno nella parte finale, anche se non si può addossare a Jacques la colpa. Tutto il sistema del rugby italiano non ha funzionato, non siamo riusciti ad ottenere la qualità elevata che serviva né in campionato né in Nazionale. Ora bisogna ricostruire, capendo gli errori che sono stati fatti e cambiando mentalità”.

La mentalità: un problema che riguarda anche voi giocatori? Forse a volte non siete stati, o non vi siete responsabilizzati a sufficienza?

“Noi giocatori siamo quelli che ci mettono la faccia e che prendono le botte in campo, quindi non credo. Forse non proprio tutti hanno dato il massimo, ultimamente però sono state prese delle decisioni e fatte delle scelte, anche grazie a Conor, che mi auguro portino a dei risultati. Poi in Italia non disponiamo del budget, delle risorse, degli strumenti che possono avere altre nazionali, quindi fatalmente siamo sempre costretti a rincorrere”.

Tu dove interverresti?

“Sono domande che devi fare ai dirigenti, non ad un giocatore. Posso dirti che l’importante è curare i giovani, continuare a investire nel movimento. Non ci si può fermare. Il livello non ottimale dei campionati è un problema. La Celtic è una buona scuola, chi la gioca migliora molto, purtroppo ci arrivano in pochi. Bisogna aumentare il bacino”.

Secondo te Conor O’Shea si aspettava di trovarsi in una situazione come l’attuale, con le Zebre nei guai e un ambiente che fatica a trovare una dimensione organizzativa e manageriale all’altezza?

“Forse non se lo aspettava fino a questo punto. Il caso delle Zebre non è facile da gestire (l’intervista è stata fatta nel corso dell’estate, quando la situazione non era ancora completamente risolta, ndr) ma Conor è un manager molto capace, che fra l’altro sa circondarsi di tecnici competenti, i migliori al mondo. Non credo si sia perso d’animo. Va lasciato lavorare, accompagnato nella maniera giusta, perché può aiutarci a costruire un buon movimento. Mi augurino che lo ascoltino…”.

Osservare il fenomeno ‘Lions’ e poi ragionare sulle questioni italiani non è un po’ sconfortante?

“E’ una questione culturale. I Lions sono l’esempio di come tifosi di nazioni diverse sappiano apprezzare un progetto che li unisce. Si appassionano alla squadra sia che vinca sia che perda, non sono ossessionati dal risultato. In Italia badiamo troppo al nostro orticello, ci esaltiamo se arrivano le vittorie, non sappiamo andare al di là delle sconfitte”.

Restando in campo internazionale, non ti spaventa la deriva muscolare del rugby? Da un ‘codice’ cugino come il Football Americano arrivano dati inquietanti sui traumatismi, e tu stesso in passato hai dovuto superare problemi molto seri. Da genitore, avvicineresti tuo figlio al rugby, oggi?

“Rugby professionistico e giovanile sono due cose diverse. L’importanza crescente data al fisico riguarda tutti gli sport, non solo il rugby. Esasperare questa componente non è positivo, ma è un problema che riguarda gli adulti, che possono scegliere cosa fare e come farlo. Da noi fino a 16, forse anche 18 anni non diventi veramente un atleta di alto livello. Siamo strutturati così, al massimo trovi quello più grosso che te le dà – è capitato a tutti- quindi certi problemi non esistono. Non avrei nessuna remora a far giocare a rugby mio figlio”.

Il doping è un problema trascurato? Un tempo Jonah Lomu era l’eccezione, oggi fisici come il suo sono quasi la norma nell’emisfero sud.

“No, vengono fatti migliaia di test, nel Sei Nazioni siamo seguiti costantemente. Nell’emisfero Sud con certi fisici ci nascono, anche se ora a differenza dei tempi di Lomu, vengono anche allenati diversamente: speriamo nella maniera giusta. Ma vedo che quando girano tanti soldi c’è meno voglia di correggere le storture, lo si vede in altri sport come il ciclismo”.

A 30 anni sei ormai una delle certezze del nostro rugby. Cosa chiedi al resto della tua carriera?

“Soprattutto di restare in salute, per potermi togliere delle soddisfazioni sia a Treviso sia con la Nazionale. Raggiungere i quarti ai Mondiali è forse il traguardo che mi attira di più, sarebbe davvero qualcosa di storico per il nostro rugby”.

Poi c’è l’impegno fuori dal rugby, con l’Onlus la Colonna, che si occupa delle lesioni spinali, e l’appuntamento con ‘una meta per Ganca’, che si è concluso da poco.

“Sì, e l’apprezzamento generale per il torneo e per quello che si significa dimostra che il messaggio è stato raccolto. Lo sport può essere un modo per fare del bene agli altri, nello specifico sostenere persone con forti disabilità, aiutarli a vivere in maniera comunque serena evitando che si isolino”. Perché ci sono imprese che vanno fatte in solitaria, come insegna Herman Hesse, e cordate che hanno bisogno del sostegno di tutti.

 

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Francesco Minto è nato a Mirano il 20 maggio 1987. Dal 2006 al 2010 ha giocato nel Parma, poi è passato al Treviso con la cui maglia ha disputato un centinaio di Parma tra PRO12 e coppe europee.

In nazionale ha debuttato nel 2012 contro gli All Blacks giocando in tutto 36 partite, le ultime due da capitano.

Nella foto di Roberto Bregani/Fotosportit, un attacco di Minto contro gli All Blacks lo scorso anno all’Olimpico.

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