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A pochi giorni dal primo derby della stagione, apriamo un dibattito virtuale fra i dirigenti del Benetton Treviso e delle Zebre. La parola, oggi, ad Amerino Zatta, Presidente del Benetton: “La stagione dei condizionamenti su stranieri, allenatori, giocatori in certi ruoli non ha funzionato. Ora queste limitazioni sono venute a cadere e, come Benetton, siamo abbastanza liberi e ci siamo riavvicinati alle prime della classe”.
di Federico Meda (da Allrugby numero 130)

Amerino Zatta riflette a ruota libera su Benetton, PRO14 e Fir. E sogna di riportare il Treviso in Top12, lasciando l’Europa a una franchigia veneta. “Magari lo faranno i nostri figli”, dice.

Amerino Zatta è persona cui piace far trasparire ciò che pensa perché, per ruolo e carattere, deve valutare, giudicare, soppesare. Forse è per questo che per un biennio non si è concesso ai taccuini di Allrugby: “Quando le cose non sono serene, è meglio non esprimere i malumori – dice-. Preferisco lavorare. Oggi credo nell’impostazione attuale e trovo giusto ragionarci insieme”. Lo facciamo all’indomani dell’ufficialità dell’ingresso dell’Italia come socio paritario nel PRO14, punto di arrivo di una lunga trattativa: “Sono convinto che continuare con questa avventura sia una cosa positiva. Personalmente trovo sia l’unica strada che permette ai nostri ragazzi di giocare a un certo livello”.
Ha mai avuto dubbi su questa esperienza celtica?
“No, anzi. L’auspicavo prima ancora di parteciparvi. In realtà, per quanto ne so, potevamo entrare anche prima ma non si è concretizzato nulla. Per fortuna non è mai troppo tardi”.
Che idea aveva allora, nove anni fa?
“Quando si inizia una nuova storia c’è sempre l’auspicio che sia qualcosa di grande, speciale. A essere sinceri, la Celtic League, poi Pro12/14 non era così organizzata e importante quanto lo è adesso. La crescita c’è stata ed è dipesa da una capacità gestionale e di visione del board”.
Ci sono stati momenti difficili, sia sul campo sia nel rapporto con la Federazione.
“La sintetizzo così: non avevamo la libertà di movimento che ci serviva per crescere. La stagione dei condizionamenti su stranieri, allenatori, giocatori in certi ruoli non ha funzionato. Ora queste limitazioni sono venute a cadere e, come Benetton, siamo abbastanza liberi e ci siamo riavvicinati alle prime della classe”.
A proposito di prime della classe, come si compete in questo rugby sempre più ricco e specializzato?
“Ad esempio con un progetto pluriennale come il nostro. Partendo da un allenatore molto capace, il cui curriculum da giocatore e allenatore era di altissimo livello. La cui filosofia ci convinceva appieno. Kieran Crowley non è una scommessa, è un investimento sul futuro. L’idea era di affiancarlo con personalità dalle qualità tecniche e caratteriali al di sopra della media, per lo meno italiana. A cascata questo ragionamento ha coinvolto l’intero staff dei preparatori, dei fisioterapisti, avvalendoci anche qui di personalità all’occorrenza straniere. Anche i videoanalisti non sono i primi tre che passano. Sono coordinati da un inglese (Mark Brady), che forma i due italiani (Mattia Geromel e Nicola Gatto) e la squadra non fornisce contributi solo durante la settimana ma risultati e statistiche in tempo reale nel corso della partita”.
Quali i risultati, in questi anni di Celtic League, da ricordare? Il record di vittorie dell’anno scorso? Il settimo posto nel 2012/13? Una particolare vittoria?
“I record mi interessano poco. È una soddisfazione relativa. A me fa piacere il risultato concreto. Per quanto riguarda le partite, ricordo con soddisfazione la prima in PRO12, in casa con gli Scarlets. Una vittoria che ci ha illuso: “se questa è la Celtic siamo a cavallo”, pensavamo. Poi ne abbiamo perse tre di fila e siamo tornati sulla terra. Un’altra è l’esordio in Coppa Europa, nel 1995 con Tolosa. Essere tra i soci fondatori della massima competizione continentale mi rende tuttora orgoglioso”.
Siamo vicini al massimo livello?
“Non penso, all’attuale stato delle cose. Siamo sulla strada giusta per puntarci”.
Non è ottimista? Due franchigie che finalmente danno soddisfazioni e un manager come O’Shea in Nazionale fanno ben sperare.
“Televisivamente parlando il rugby è sport molto interessante. E se giocato bene e in modo corretto ci sono buoni risultati in termini di audience. Noi, come Italia, dove il rugby è ancora giovane, non stiamo proponendo uno spettacolo sufficiente per essere appetibile ai network. L’unica soluzione è un percorso altamente specializzato, step by step, con passaggi obbligati, credendoci anno dopo anno. Conor è molto bravo come manager e apprezzo le sue sortite a Treviso ma penso che solo chi vive la realtà tutti i giorni, come Crowley, riesce a cambiare il rugby. Penso ci voglia maggior presenza”.
Quindi come vedrebbe impostate le due franchigie, su un modello di rugby comune dalle giovanili alla Nazionale maggiore? Come nel calcio fa il Barcellona?
“Non so, tra il dire e il fare ci sono tanti passaggi. Diciamo che sono per consolidare il più possibile le due realtà. Poi nel 2023 ci penseremo di nuovo perché, ricordiamoci, noi partecipiamo perché invitati dalla Federazione. È la Fir ad essere socia del PRO14”.
Lei, anni fa, teorizzava una franchigia veneta. Ha cambiato idea?
“Assolutamente no. Un terzo, o forse più, dei giocatori del nostro movimento è di origine e formazione veneta. Se guardiamo al Top 12, sei squadre sono venete. È una terra, la nostra, naturalmente indicata per il rugby. Il sogno, un domani, è che si possa esprimere una franchigia identificativa. Senza fare gli errori del passato”.
Ovvero?
“Non bisogna aver fretta. È un progetto ambizioso e per metterlo in pratica bisogna avere una base consolidata”.
Ora a che punto siamo?
“Stiamo consolidando le fondamenta. Pensiamo ai permit player: finalmente, dopo anni, il sistema sembra funzionare, da entrambe le parti. È un tassello fondamentale. Abbiamo comprato il terreno nove anni fa, ora stiamo costruendo e organizzando il lavoro. Come e con chi abitarlo lo decideremo più avanti”.
Cosa manca perché il progetto diventi realtà?
“Tante cose, ovviamente. Certamente un capofila. Bisogna essere molto forti, compatti per mettere in piedi una franchigia regionale. Magari saranno i nostri figli a farlo. Ogni stagione ha il suo frutto”.
E il Benetton, in questo volo pindarico, dove giocherebbe?
“Tornerebbe a scontrarsi con Petrarca e Rovigo in un domestic più forte, più appetibile”.
Lei parla da presidente del Benetton ma ha le competenze e il vissuto per ragionare, per dirlo come gli inglesi, di big picture, di quadro generale. A questo proposito, come valuta l’operato federale, quali sono i rapporti con il Presidente Gavazzi?
“Ognuno ha le sue opinioni e idee. Rispettiamo quelle di entrambi, non sempre le condividiamo”.
Cosa ha apprezzato del Gavazzi bis e cosa meno?
“Avrei fatto un sacrificio forte per l’Accademia in Ghirada, nonostante la motivazione alla rinuncia fosse più che plausibile (mancanza di risorse, ndr). Perché sono convinto sia la strada giusta per arrivare in alto. I ragazzi, lo vedo con l’U18, sono esaltati dalla vicinanza con i seniores. Un’accademia senza franchigia non ha il confronto con i più grandi, nel bene e nel male. Come due fidanzati che si vedono ogni tanto, alla fine finiscono per conoscersi poco. Solo vedendosi tutti i giorni ci si capisce”.
Note positive, ragionando sempre di Fir?
“Ho apprezzato il fatto che alcune nostre idee e progetti, pur non essendo condivisi, siano stati approvati e supportati perché si è finalmente interessati più al risultato e meno a come si pensa di ottenerlo”.
È legittimo pensare a una sua candidatura alla presidenza federale, dopo il forfait di Innocenti?
“Non lo so. Sono gratificato dalla realtà Benetton e ho anche ripreso il lavoro a pieno ritmo in una società del gruppo. Non so cosa mi riserva il futuro e, onestamente, ho anche poco tempo per pensarci”.
Rimpianti per la mancata elezione (nel 2012, ndr)?
“Ero molto convinto di quello che stavo facendo. Infatti il programma è ancora attualissimo. Mi spiace non essere riuscito a trasmettere ai club le mie visioni. Purtroppo ho avuto poco tempo, mi sono candidato tardi”.
Qual è la sua ricetta per un modello (sportivo) vincente?
“La forma, la tecnica, l’organizzazione, la qualità. Direi anche la fortuna ma soprattutto la paura”.
La paura?
“La paura è unica per infondere coraggio, dote fondamentale per intraprendere qualsiasi azione”.

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