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Che futuro per il rugby italiano, alla vigilia delle elezioni che il prossimo 17 settembre designeranno per il prossimo quadriennio i nuovi vertici della Fir?
Quattro anni di polemiche decisamente sterili non hanno prodotto un dibattito all’altezza delle sfide che ci aspettano, la prima e più importante delle quali ha radici antiche e risposte ancora lontane: che tipo di professionismo per un paese a scarsa vocazione ovale e nel quale i privati investono nel movimento, al netto del budget Fir, una cifra che abbiamo calcolato per eccesso di poco superiore ai 35 milioni di euro in totale, un quarto del valore di Pogba? Un paese in cui il campionato di Eccellenza (cento chilometri di raggio per otto squadre) non arriva in novantacinque partite a centomila spettatori in totale, quanti quelli che in Francia e in Inghilterra assistono alla finale. Esistono mezzi per attivare più risorse, più pubblico, più interesse e più sponsor?
La Fir, negli anni passati, una sua risposta l’ha data, costruendo un modello che pare l’unico possibile per un paese in cui il club più ricco dispone del budget che all’estero una rivale ricava dalla sola vendita delle magliette e dei gadget.
Il Sei Nazioni, indipendentemente dai risultati sul campo, ha permesso alla Fir di passare da un bilancio di circa 10 miliardi di lire nel 2000 (5 milioni di euro, mal contati) agli attuali 50 milioni di euro, e alla Nazionale di riempire regolarmente lo stadio Olimpico, al quale prima il rugby non osava nemmeno avvicinarsi. Si è creato di conseguenza un movimento a trazione anteriore, interamente dipendente dalla locomotiva federale alla quale è toccato in questi anni il compito di allocare le risorse, dall’alto livello in giù, passando per le due franchigie (quasi interamente dipendenti da Roma per quanto riguarda le risorse economiche), le accademie, i club.  Gli articoli che trovate più avanti in questo numero di Allrugby rilanciano, a dieci anni dall’inaugurazione della prima accademia, un dibattito che in questi anni è stato condizionato da pregiudizi e mai affrontato in modo costruttivo e imparziale.
Accademie e centri di formazione costituiscono oggi il percorso principale attraverso il quale incanalare i giocatori migliori verso l’alto livello, un percorso formativo di “eccellenza” finalizzato a creare quelle condizioni di crescita che si ritiene siano precluse ai club. Funziona? I risultati (Nazionale e Nazionali juniores) sono quelli che sono, ma manca la verifica opposta, cioè dove sarebbe il movimento italiano, senza le impalcature federali, ovvero se la crescita fosse stata delegata interamente a club che tuttora dipendono in larga parte da strutture amatoriali e buone volontà individuali. I soldi si potevano spendere meglio? Senz’altro, così come alcune scelte avrebbero potuto essere più efficaci. Ma la sostanza non cambia.
Nel frattempo, il campionato langue. Rilanciarlo è indispensabile, ma con quale modello? Quello del basket, che riempie i palazzetti, ma dal 2004 non riesce a qualificare la Nazionale per le Olimpiadi? Quello della pallanuoto, sport “regionale” per eccellenza (Liguria e dintorni) che nel tempo è riuscito ad estendersi fino a Brescia, Busto Arsizio e Siracusa, ma certo non dispone dei mezzi di cui avrebbe bisogno il rugby? Oppure prendendo esempio dal volley, sport giocato in tutte le spiagge e tutte le scuole d’Italia?
Ecco i temi del dibattito che avrebbe potuto essere e non è stato.  Se ne riparla tra quattro anni, nel frattempo cerchiamo di fare al meglio quello che possiamo fare.
Gianluca Barca

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