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Beccato a festeggiare a Las Vegas con i giocatori del PSG, Castro è stato immediatamente messo fuori rosa dal Racing 92 ai cui dirigenti aveva detto di non poter andare a sostenere la squadra a Nottingham, nella semifinale di Champions Cup (non avrebbe fatto comunque parte dei 23 selezionati per il match), perché doveva recarsi in Argentina ad assistere un parente malato. Una foto con Ibra e altri l’ha inchiodato.
Un tempo i vizi del rugby consistevano nell’eccesso che poteva contemplare il bere smodato, lo scherzo portato sino all’oltraggio, l’ardimento spinto oltre il limite consentito e, se compariva la menzogna, era solo dettata dal desiderio di poter catturare un possibile giorno di gloria. “Come stai?”. “Bene, sono pronto, non c’è nessun problema”, rispondeva il giocatore, anche se un tendine ululava appena posato a terra un piede dopo il risveglio.
La storia del Vecchio Gioco è piena zeppa di cuor di leone, di spaccamontagne, di spariti nel tritacarne della Grande Guerra: di Paddy Blair che, dopo avventure nel deserto, al volante di un jeep che forzava i posti di blocco dell’Afika Korps, imbocca il viaggio da cui nessuno è tornato in un’alba livida, tragica e alcolica a Belfast; di Lions in libera uscita che tentano di portare un cavallo al quarto piano di un hotel di Città del Capo; dell’All Black che, per aver passato il confine del comportamento civile, decide di andare a vivere nel bush, in una novella Tebaide penitenziale; di giocatori trovati in autostrada al volante di una golf car; di principi stravaganti e di plebei arditi che sarebbero stati soggetti mirabili per un Hogarth del XX secolo; di sfide rusticane nei vicoli di Genova per stabilire se quel che diceva di essere un Puma era davvero un felino che veniva dal Sudamerica; di inglesi che pisciano nelle bottiglie vuote temendo di non avere il coraggio di chiedere dove siano le toilette a Buckingham Palace.
Ma giocarsi la reputazione a un tavolo di Las Vegas, questo no, questo mai. Serve solo a costruire quello che Samuel Beckett, caduto in amore per il rugby in vecchiaia (non era teatro dell’assurdo quel che vedeva, ormai immoto nel letto, né metafora, ma vita reale), chiamò “Finale di partita”. Varcando l’Atlantico, dall’Irlanda all’Argentina, oggi tutto odora di triste e final.
G. Cim.

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